Cristina Comencini, La Repubblica 3/3/2014, 3 marzo 2014
LA MIA LUNGA NOTTE DEGLI OSCAR
Quando ricevo la notizia che La bestia nel cuore è candidato italiano per il miglior film straniero, la corsa è partita da un bel po’, e i 60 degli altri Paesi sono già in pista. Andiamo a Los Angeles e in giro per la California: proiezioni, cene in cui incontri i cast dei film che hai amato nel corso di quarant’anni, viaggi in macchina. A Palm Springs ci arrivi traversando il deserto: mi trovo a tavola con la mia attrice preferita, Shirley MacLaine, è già abbastanza. Torno a Roma e penso che il ritardo di partenza sia incolmabile. Mentre stanno per uscire i titoli dei 5 nominati, chiudo i telefoni perché non credo di entrare in cinquina e non mi piace ricevere le telefonate di condoglianze. Invece c’è il colpo di scena: la mia publicist americana, all’annuncio che il film ce l’ha fatta, dice di essere caduta dalla sedia. Io non so ancora niente, e quando me lo dicono, mi pare una festa di compleanno a sorpresa.
Si riparte e si ricomincia il giro. Hollywood è estrema, se non ti considera sei veramente un passante, quando ti vede ti esalta. Vengo invitata a un incontro dove si confrontano in uno spettacolo a pagamento gli sceneggiatori dei cinque film nominati per l’Oscar in lingua inglese: ci sono Brokeback mountain, Good night and good luck, Memoirs of a Geisha, Crash.
Eccezionalmente hanno invitato una regista del foreign language, hanno saputo che sono anche scrittrice del libro e della sceneggiatura. Con la mia solita incoscienza, non capisco che è una fossa dei leoni e accetto con piacere. I cinque sono brillantissimi, lo scambio è tutto battute e doppi sensi, a tratti incomprensibile. Chiedono a tutti qual è il momento migliore della giornata per scrivere. Lo sceneggiatore di Clooney dice che per lui il momento ideale è dopo essersi masturbato. Io esordisco con una affermazione semplice: scrivo dalla mattina fino alle quattro, quando i miei figli sono a scuola. La mia risposa viene scambiata per un joke sopraffino e da quel momento vado liscia ed esco sugli scudi come Chance il giardiniere.
E poi arriva il giorno dell’Oscar. Esci in abito da sera alle tre del pomeriggio: la cerimonia è presto e l’avvicinamento delle 300 limousine è una manovra che pare coordinata da Moshe Dayan in persona. In albergo sono venuti a propormi (in prestito) i gioielli per la serata. Ho esitato goffamente fra tre sarti e due sono arrabbiati. Però mi pare di essere fra le mani della fata turchina. Arriviamo al teatro. Siamo seduti vicini, noi cinque candidati. Siamo diventati amici, specie col palestinese e il simpatico sudafricano (sarà lui a soffiarmi il titolo, alla fine). Ho messo sul vestito una piccola decorazione che mi ha dato Napolitano. Viva l’Italia! Sarà preziosa, il vestito è stretto e salta una spallina: terrore, stanno per chiamare. Il produttore, non lo si è per caso, usa la decorazione come spilla per fermare la spallina: funziona. Ma non chiamano me, chiamano il mio amico sudafricano.
C’è un’atmosfera di festa, e tutti abbiamo il senso di appartenere a una comunità che fa un lavoro bello cercando l’eccellenza, che compete ma si sente anche parte di una storia grande e comune. Ricordo le parole di un amico americano prima della serata: non avere paura, sarà come un soffio di brezza. Credo che Paolo Sorrentino ora ci abbia appoggiato il suo volo.