Nicola Mirenzi, Europa 2/3/2014, 2 marzo 2014
The Frontman, il libro che fa a pezzi Bono perché non è Lenin - Prometteva bene The Frontman di Harry Browne (Edizioni Alegre, 15 euro, 288 pagine): un libro che fa a pezzettini Bono Vox degli U2 per il suo impegno politico a favore dell’Africa, dei poveri, del “cancella il debito” perché in realtà – scrive l’autore, un giornalista irlandese – il suo è un «servizio reso al potere»
The Frontman, il libro che fa a pezzi Bono perché non è Lenin - Prometteva bene The Frontman di Harry Browne (Edizioni Alegre, 15 euro, 288 pagine): un libro che fa a pezzettini Bono Vox degli U2 per il suo impegno politico a favore dell’Africa, dei poveri, del “cancella il debito” perché in realtà – scrive l’autore, un giornalista irlandese – il suo è un «servizio reso al potere». Visto che Bono è diventato una specie di santo laico, parecchio compiaciuto del suo ruolo di salvatore del mondo, siamo subito corsi a leggerla, questa biografia non convenzionale, tradotta in Italia da Wu Ming 1 e Alberto Prunetti, per vedere ridotta a dimensioni umane la sua figura, ormai entrata nella categoria degli intoccabili, come accade a tutti i coloro che basano la loro attività politica e sociale sul cuore sanguinante delle buone cause. Nel libro di Browne però la demolizione di Bono passa attraverso la lente dell’ortodossia ideologica, tanto che la preoccupazione principale dell’autore non è quella di mostrare le contraddizioni della sua attività, l’inefficacia delle operazioni umanitarie promosse, ma quella di svelare al lettore che Bono non è un compagno che sbaglia: ma non è proprio un compagno. «Si pensi o meno che Bono abbia ragione – afferma – spero che dopo la lettura di questo libro risulti difficile a chiunque considerarlo di sinistra». Secondo l’autore, «Bono è più di un semplice dispensatore di beneficenza. Piuttosto è un “portavoce” dei poveri, e in quanto tale è divenuto un simbolo del carattere essenzialmente benevolo della ricca élite occidentale. Questo fa di lui – prosegue – il frontman ideale per un sistema basato su sfruttamento imperialistico e guerre, un sistema che non ha mai cessato di saccheggiare e corrompere». Il libro è diviso in tre capitoli: l’Irlanda, l’Africa e mondo. In ognuno di essi si prende in esame l’attività del Bono “politico” non attraverso la sua musica, ma ricostruendo il suo impegno civile. Browne ricorda che «lo stesso Bono, ormai molti anni fa, disse che vedeva i due ruoli come separati, e la musica come un veicolo sostanzialmente inutile per il cambiamento politico». Tanto è vero che anche una delle canzoni più note e politicizzate degli U2, Sunday bloody Sunday, non è affatto una canzone di lotta. (Nel presentarla, spesso Bono sottolinea: «This is not a rebel song»). È nel racconto di come Bono ha vissuto il conflitto irlandese – sostenendo la causa della non violenza – che viene fuori lo sguardo pregiudiziale di Browne, animato dalla volontà di dimostrare che ciò che pensava il cantante degli U2 è sbagliato e schiavo del potere, mentre quello che pensavano i guerriglieri nazionalisti dell’Ira (e in parte lui) era giusto e al servizio del proletariato oppresso (ma veramente, poi, si può considerare la questione irlandese una guerra di classe?). «Bono Vox – scrive – non fu altro che la buona voce della sua classe sociale di adozione, un giovane la cui carriera trasse molti benefici dal conflitto nord-irlandese». Per la sua campagna a favore della cancellazione del debito, Bono è accusato di aver trattato con i peggiori esponenti del congresso americano. «La conquista più famosa – racconta il libro – fu il senatore di destra del North Carolina, Jesse Helms, la cui meritata reputazione di razzista, omofobo e xenofobo contava meno del suo ruolo di presidente della commissione relazioni internazionali del Senato». Sebbene ciò sia «disgustoso», scrive Browne, se Bono «avesse ottenuto qualcosa di concreto e di rivoluzionario per i poveri dell’Africa sarebbe stato un piccolo prezzo da pagare». Ma questo non è accaduto. In realtà anche il libro riconosce qualche paragrafo dopo che alcuni risultati Bono li ha raggiunti, «ma – si affretta a precisare l’autore – questi risultati furono bilanciati dalla promozione pubblicitaria di alcune delle forze più ferocemente distruttive del pianeta». Le stesse che «mentre si facevano abbracciare da Bono per aver gettato qualche briciola ai poveri, si rimpinzavano con i frutti di una massiccia e inedita speculazione finanziaria priva di regole e alimentavano debiti non solvibili che sovrastavano di gran lunga quelli condonati con magnanimità all’Africa». Dunque Bono è l’«utile idiota» del sistema. La cui colpa maggiore – è questo il vero capo d’imputazione del libro – è non essere come Lenin, cioè non lavorare a una rivoluzione che ribalti i rapporti di forza esistenti e via con tutto l’armamentario anti-capitalista allegato. Mentre invece le righe più efficaci contro la bolla della retorica sono quelle che raccontano di quel concerto in cui Bono, nello sforzo di rendere il dramma della fame nel mondo, disse: «Ogni volta che batto le mani, un bambino muore». «Allora smettila di farlo», gli urlò una voce dalla folla.