Fabio Tamburini, CorriereEconomia 3/3/2014, 3 marzo 2014
VERTICE ENEL I CONTI PER IL QUARTO MANDATO PRIMA SI PENSI ALLE STRATEGIE POI ALLE NOMINE
La caccia al big fish era partita un minuto dopo la promozione di Fulvio Conti da direttore finanza e controllo all’incarico di amministratore delegato dell’Enel, nel maggio 2005. Big fish , che in inglese significa grande pesce, era l’appellativo con cui lo stesso Conti chiamava la società su cui aveva deciso di puntare per la grande acquisizione destinata a trasformare l’Enel da azienda di servizi tutta italiana in gruppo multinazionale. Inizialmente il big fish avrebbe dovuto essere la francese Suez che, tra l’altro, controllava la belga Electrabel. Ma il governo di Parigi entrò a gamba tesa alla faccia del libero mercato archiviando i sogni di scalata dell’Enel di Conti. Così, quando si delineò l’alternativa spagnola di Endesa, finita nel mirino della tedesca Eon, Conti colse l’attimo e chiuse un blitz decisamente in controtendenza: uno dei pochi, rari casi in cui negli ultimi anni un gruppo italiano è cresciuto sui mercati internazionali diventando predatore e non preda.
Notti insonni
La contropartita è stato il prezzo elevato: almeno 54 miliardi di euro, che rovinarono qualche notte all’allora presidente dell’Enel, Piero Gnudi, l’Enrico Cuccia bolognese, come veniva chiamato per la rete estesa d’influenza nel mondo della finanza e dell’economia (ma anche nella politica, grazie alle relazioni bipartisan e all’amicizia personale con l’ex presidente del consiglio e compagno di biciclettate, Romano Prodi). Gnudi prima si convinse e poi si appassionò, anche se nel caso di Conti la fortuna non fu troppo benevola con gli audaci perché la scalata a Endesa venne chiusa in bellezza nel 2007, pochi mesi prima della grande crisi economica, che ha significato il crollo dei consumi elettrici e la tempesta sui mercati finanziari. Basta considerare che dal 2008 in Paesi come l’Italia e la Spagna, che rappresentano le roccaforti del gruppo, la diminuzione della domanda è risultata intorno al 6-7 per cento. E proprio la crisi ha contributo a far degenerare in rissa i rapporti con il governo spagnolo, che ha imposto tariffe penalizzanti per i produttori come Endesa, leader su quel mercato.
Svolta ad Est
Nonostante ciò Conti, che oggi sta terminando il terzo mandato di numero uno operativo dell’Enel, ha reagito rilanciando e puntando sulla crescita per acquisizioni in una zona del mondo agli antipodi rispetto alla Spagna e all’America Latina conquistati con Endesa: l’Europa dell’Est. Più esattamente le operazioni sono state in Russia, Romania, Slovacchia. Totale investito: una decina di miliardi. Tecnologie acquisite: un po’ tutte, compreso il nucleare. La scelta strategica del gruppo era diversificare mercati e fonti energetiche. Nessuno può dire che le scelte non siano state coerenti. «Il coraggio non gli è mancato», constata un manager che lo conosce bene, peraltro più critico che ammiratore. E aggiunge che per dipanare la matassa è stata decisiva la continuità nell’esercizio dell’incarico perché Conti, sempre secondo la sua definizione, ha finito per trasformarsi in una sorta di «apprendista stregone», alle prese con un debito da far tremare i polsi (ha sfiorato i 56 miliardi di euro nel 2007 su quasi 44 miliardi di ricavi).
Lui ha sempre ribattuto che la situazione era sotto controllo e che la polizza sulla vita migliore era ed è rappresentata dal cash flow , cioè dalla capacità del gruppo di assicurare un flusso costante di utili da utilizzare per pagare gli interessi sul debito, ridurlo e versare nelle casse degli azionisti dividendi adeguati.
Flussi di cassa
Così, in effetti, è stato. E dal 2009, nonostante la crisi, il livello dei 16-17 miliardi di ebitda (il margine operativo lordo, cioè la capacità di produrre profitti, ndr ) ottenuti ogni anno è stato mantenuto grazie al taglio dei costi e, quando è servito, degli investimenti. Contemporaneamente la priorità dichiarata nei rapporti con analisti e agenzie di rating è stata la riduzione del debito a numeri accettabili: è sotto quota 40 miliardi a fine 2013, contro oltre 80 miliardi di ricavi. Un obiettivo raggiunto con la vendita di asset ma anche con strumenti creativi come i cosiddetti bond ibridi, obbligazioni di lunghissimo termine (60 anni) che pagano interessi elevati ma sono rimborsabili dalla società in ogni momento e hanno il vantaggio non trascurabile di essere considerati dalle agenzie di rating patrimonio aziendale per metà del loro importo. Il piano di Conti ne ha previsti per 5 miliardi, di cui 4,2 già collocati sui mercati, con un costo medio della raccolta intorno al 6,5 per cento contro un costo medio del debito lordo inferiore di poco al 5 per cento.
Quaranta Paesi
Il risultato finale è che l’Enel ha pagato pegno in Borsa (con il titolo che ha avuto performance deludenti rispetto all’indice Stoxx 600 delle utilities europee, vedere grafico) ma è diventata una delle poche multinazionali italiane, presente con 73 mila dipendenti in 40 Paesi. Esattamente quelli che aveva all’inizio del percorso, nel 2007. La differenza è che all’epoca erano concentrati quasi esclusivamente in Italia. Oggi la capacità produttiva è distribuita in Italia (40 per cento), Spagna (25 per cento), America latina (17 per cento), Russia (10 per cento), Europa dell’Est (7 per cento) e altri mercati (1 per cento). Contemporaneamente è stata giocata la carta della presenza massiccia nelle energie rinnovabili con la costituzione nel dicembre 2008 di Enel green power, una esperienza di successo cresciuta fino a dimensioni multinazionali che pochi gruppi elettrici hanno saputo realizzare.
La scelta di puntare sullo sviluppo all’estero è stata, ed è, ricca di ostacoli. Dalle difficoltà di far affluire nelle casse dell’Enel i ricchi dividendi delle società latino americane alle incognite del mercato russo. Ma, soprattutto, non è una opzione strategica condivisa da tutti gli esperti. C’è una corrente di opinione che considera la produzione di energia un business locale, poco adatto a realizzare economie di scala adeguate. Critiche che Conti respinge sottolineando che il problema dell’Italia è la dipendenza dall’estero per l’80% delle risorse utilizzate per la produzione di energia e che la mutazione genetica dell’Enel è garanzia di risultati profittevoli per gli azionisti e per il Paese. Il tutto nel nome di un cambiamento di visione che punta su un modello in cui l’energia viene prodotta da impianti di piccola taglia distribuiti capillarmente sul territorio in cui anche le imprese minori diventano esse stesse produttrici. E non più soltanto dalle grandi centrali.