Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 03 Lunedì calendario

IL CONSENSO A CARO PREZZO


Qual è la causa profonda della crisi italiana, che ormai sappiamo bene essere una crisi niente affatto congiunturale? Un filo per imbastire una risposta adeguata lo si trova leggendo i saggi di un volume curato da Gianni Toniolo — L’Italia e l’economia mondiale dall’unità a oggi — e pubblicato nella bella collana storica della Banca d’Italia. Come spesso capita, la prospettiva dei tempi lunghi, soprattutto centrale nel saggio introduttivo del curatore, serve a far vedere meglio le cose.
All’incirca verso il 1990 lo sviluppo del nostro Paese aveva più o meno raggiunto quello dell’Europa occidentale. Un’impresa ragguardevolissima, se si considera che solo un secolo prima rispetto a quella parte del continente non eravamo ancora usciti dalla decadenza secolare che ci aveva colpito dalla fine del Cinquecento. Ma dai primissimi del Novecento sopraggiunge una crescita sostenuta e pressoché costante, divenuta impetuosa a cominciare dalla Grande Guerra alla fine degli anni Venti e quindi nel trentennio 1950-1980, durante il quale diminuirono anche — e non di pochissimo — la distanza tra Nord e Sud e la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra i gruppi sociali.
Da allora, invece, se non proprio un precipizio, quasi. Basti dire che il rapporto tra il Prodotto interno lordo pro capite italiano e quello degli Usa è tornato nel 2010 ai livelli del 1973. In questo secolo, insomma, la nostra crescita è semplicemente inesistente, e da un certo punto in poi inizia addirittura una decrescita. Un deterioramento complessivo di cui può essere considerato un preannuncio simbolicamente esemplare ciò che a cominciare dagli anni Ottanta avviene del rapporto debito/Pil: da circa il 60 per cento nel 1979 si passa in un solo decennio al 90, per arrivare nel 1992 al 105 per cento.
Che cosa è successo per giustificare la drammatica inversione avutasi nello sviluppo italiano? In queste pagine si danno parecchie spiegazioni (poche grandi imprese, mancato inserimento nell’imponente rivoluzione tecnologica e dei servizi di fine Novecento, aumento eccessivo del costo del lavoro, eccetera), ma se ne affaccia di continuo, mi sembra, una in particolare, benché mai sviscerata fino in fondo. Vale a dire che in Italia ciò che è venuto meno non è qualcosa che attiene direttamente all’economia, ma è piuttosto una generale «capacità sociale di crescita» (Toniolo).
Diviene allora impossibile non collegare il ciclo economico a quello politico, e chiedersi se negli Anni 70/80, data di inversione del primo, non sia cominciato ad accadere anche nel secondo qualcosa di significativo che possa essere messo in relazione con esso. Ebbene, questo qualcosa è senz’altro accaduto, e si chiama avvento di un consenso elettorale ad alto tasso di contrattazione. Mi spiego: fino a quegli anni il voto appare in gran parte determinato da forti motivazioni di appartenenza ideologica. Il voto mobile, cosiddetto d’opinione, è piccola cosa, e specialmente lo spostamento da uno all’altro dei due grandi blocchi elettorali — democristiano e comunista — è decisamente limitato dalla natura del Pci quale partito sostanzialmente delegittimato a governare.
Le cose però cominciano a cambiare dopo il Sessantotto. Gruppi sempre più consistenti di elettorato «d’ordine» si staccano dalla vecchia fedeltà elettorale; gli strati giovanili in quanto tali mostrano una spiccata tendenza a sinistra; la sindacalizzazione coinvolge vasti strati del ceto medio; si alza in generale il livello di richiesta di servizi e di garanzie sociali (previdenza, assistenza, eccetera). Al tempo stesso l’immagine del Partito comunista va perdendo i caratteri negativi che fin lì aveva avuto ed esso pertanto diviene un competitore credibile al governo del Paese.
Questo svolgersi delle cose rappresentava di certo una crescita democratica, un positivo ampliamento degli spazi di azione sociale: da una dimensione ideologicamente ingessata e asfissiante a una assai più libera. Ma come sempre maggiore libertà avrebbe richiesto maggiore responsabilità. Di cui invece, per varie ragioni qui troppo lunghe a dirsi, la società italiana non era certo pronta a farsi carico. In Italia maggiori spazi di democrazia vollero dire che a partire dagli anni Settanta si aprì un mercato elettorale nel quale diveniva sempre più difficile per il compratore politico opporsi alle richieste molteplici e inevitabilmente settoriali dei diversi gruppi sociali decisi a sfruttare al meglio il proprio voto. Si spiega in questo modo tutta una serie di fenomeni destinati nei decenni successivi ad aggravarsi e a produrre conseguenze negative molto importanti: l’espansione caotica e costosa dello Stato sociale, i sussidi indiscriminati alle imprese, il peggioramento della qualità dell’istruzione e della Pubblica amministrazione a causa di concessioni «permissiviste» dall’alto e pansindacalismi e agitazioni democraticiste dal basso. Nel mentre l’istituzione delle Regioni e le varie «riforme» non mancavano di produrre una progressiva perdita di controllo del centro su tutte le periferie e su tutti gli insiemi.
Storicamente, dal ’45 in poi, la democrazia italiana ha voluto dire i partiti, non la società: che anzi, nel lungo Dopoguerra, è stata piuttosto da essi dominata, organizzata e disciplinata. È peraltro impossibile negare che, in una misura significativa, il grande sviluppo economico del Paese fu reso possibile proprio grazie ai partiti: all’efficacia delle loro scelte e della loro direzione. Ma a partire dagli Anni 70/80 la tendenza si rovescia. In un certo senso la società reclama il suo primato «democratico» e comincia a sfuggire ai partiti, i quali ne perdono progressivamente il controllo fino a conoscere la virtuale dissoluzione del loro sistema con le inchieste di Mani pulite. E da allora in avanti, non a caso, essi vivono e sono vissuti soprattutto come qualcosa di superfluo, di parassitario, precisamente come una «casta».
A questo punto, però, la società che prende il sopravvento si rivela per ciò che è: una società con un assai debole «capitale civico», familistica e corporativizzata, complessivamente poco istruita e poco interessata a informarsi, il cui interesse per la libera discussione è scarsissimo, dislocata geograficamente, divisa in interessi particolari accanitamente decisi ad autotutelarsi; dove il privato tende sempre a prevalere su ciò che è pubblico o a piegarlo al proprio servizio; dove non esistono élite sociali e culturali unanimemente riconosciute. Dove sì, le energie non mancano, ma dove si manifesta sempre fortissima la resistenza al cambiamento, al merito, alla mobilità.
È compatibile — questo è il punto — una società del genere con un moderno sviluppo economico? E soprattutto: può riuscire a esprimere una strategia appena appena coerente rispetto allo sviluppo anzidetto un sistema politico che deve operare in un tale clima «democratico»? Che è costretto a contrattare periodicamente il proprio consenso con una tale società? Ecco altrettanti interrogativi cruciali a cui peraltro s’incarica la realtà, mi sembra, di dare una risposta ogni giorno più netta.