Maurizio Caverzan, Style marzo 2014, 3 marzo 2014
LA TELEVISIONE CHE NON AVETE ANCORA VISTO
È l’uomo di Master Chef e di X Factor. Ma anche l’eminenza grigia di serie come In Treatment e, prossimamente, Gomorra e 1992. Andrea Scrosati, vicepresidente Intrattenimento, Cinema, News e Canali partner è l’innovatore, la mente di talent e fiction che stanno influenzando il modo di fare televisione. «Il merito è dell’azienda nella quale lavoro», sottolinea subito Scrosati, 42 anni romano con occhi a fessura che lo hanno fatto ribattezzare «Il cinese». «In dieci anni Sky ha dimostrato che l’innovazione costante fa la differenza. Lo ha fatto su molti piani e anche nei contenuti. Basta pensare alle serie tv».
Cosa dobbiamo pensare?
«Quando Sky è nata, erano un genere di nicchia. Nel 2003 nessuno immaginava che si potesse costruire un canale di successo basato sulle serie. Oggi ce ne sono decine. Una volta entrati nelle produzioni abbiamo introdotto linguaggi e formule narrative che apparivano al limite per il nostro mercato, mentre oggi sono considerati prodotti di eccellenza»
Si può dire anche per i talent show?
«Nel caso dei talent siamo partiti dalla convinzione che fosse necessario costruire un’interazione molto forte con chi segue il programma da casa. Oggi l’interattività con i social network è basilare per questo genere televisivo».
La crisi economica ha modificato il vostro modo di fare televisione?
«In tempi di crisi la tentazione è tagliare il prodotto. Noi non siamo arretrati di un millimetro nel perseguire una televisione di qualità. Il nostro CEO Andrea Zappia ha guidato l’azienda continuando a investire sul valore e la qualità del prodotto, basta pensare allo sviluppo dell’HD, della visione in mobilità, dell’on demand. Se dieci anni fa chi faceva il mio mestiere decideva per il telespettatore, oggi grazie a MySky, a Sky on demand e a SkyGo è il telespettatore a decidere cosa vedere, quando, come e dove vederlo. Una rivoluzione copernicana...».
«X Factor», «MasterChef» e «The Apprentice» sono una sorta di trilogia del talento. Migliorabili?
«Certo. Ogni edizione ci impegniamo a migliorare, sapendo che un programma di successo è tale solo se vive anche e soprattutto fuori dalla tv, se genera discussione, confronto nella società, se alimenta modelli di riferimento o ne mette in discussione altri. La misura di questo successo non è solo il dato d’ascolto. Ci sono programmi che fanno cinque/sei milioni di telespettatori ma non hanno alcun effetto sociale. Le nostre produzioni sono lontane da quelle audience eppure sono fenomeni di costume. Ho letto che Carlo Freccero ritiene che più un programma è discusso sui social network meno ha successo. La penso molto diversamente. La discussione on line è uno degli elementi che invece concorre a definire rilevante un programma. In presenza di un’offerta di centinaia di canali è proprio in questo modo che quei prodotti emergono dal rumore di fondo».
Avete acquisito a sorpresa anche «Italia’s Got Talent, un format che autorevoli osservatori ritengono fuori dal vostro target...
«Got Talent è un formato molto potente, il nostro obiettivo è di arricchirlo con un tasso di innovazione inedito nella tv italiana, rendendolo l’X Factor del talento globale. Assieme a Masterchef e X Factor garantisce una continuità alla nostra offerta di intrattenimento, che era quello che ci mancava. Quando abbiamo acquisiti X Factor ci sono stati molti dubbi sulla scelta da parte di chi analizza la tv italiana, poi i dubbi ci sono stati su Masterchef con tanti che dicevano che l’alta cucina in tv non funziona. Vediamo cosa accadrà con Got Talent».
Parlavamo anche di crescita del mezzo televisivo...
«La diffusione capillare degli smartphone ha messo in mano ad ogni telespettatore uno strumento che permette d’interagire strutturalmente con quello che è in onda. Sono convinto che nei prossimi mesi lavoreremo a progetti nei quali il racconto sarà completamente guidato da chi è a casa, rendendo sempre più limitato il ruolo di conduttori, voci narranti, giurie e quanti mediano tra evento e pubblico».
Tuttavia, le giurie ancora per un po’ ci saranno. L’anno prossimo come cambierà quella di X Factor?
«Questi programmi sono un racconto, e nei racconti, fin dalle tragedie classiche, ci sono le parti in commedia. Ci sono talent show che hanno messo in campo la giuria perfetta, dove i giudici sono tutti simpatici, e magari fanno lo stesso mestiere. Credo invece che siano necessario personalità diverse, alternative, potenzialmente conflittuali. Quando abbiamo scelto Mika c’erano molte perplessità. Invece ha saputo portare un contributo d’internazionalità al programma. L’anno prossimo? Qualcosa cambierà».
Anche nella fiction avete puntato su prodotti innovativi: «Romanzo criminale», «Faccia d’angelo», «In Treatment». Più deludente «I delitti del Barlum». Qual è la vostra filosofia?
«Nel nostro paese esiste un grande talento nella scrittura che negli anni è stato mortificato dalla richiesta di un prodotto troppo monocorde. Storie con poco spazio per i dubbi e i chiaroscuri, con protagonisti senza macchia. Credo che una storia sia davvero coinvolgente solo se, come la realtà, somma molteplici piani narrativi. Questo è ciò che chiediamo ai professionisti che scrivono le nostre serie. E questo fa la differenza: alla scrittura di Gomorra - La Serie e di 1992 abbiamo dedicato quasi due anni. All’estero c’è una grande opportunità per i prodotti italiani, il nostro cinema sta vivendo una stagione di nuova vitalità (c’è un film che rischia di vincere l’Oscar dopo 14 anni) e le nostre serie trovano finalmente attenzione. Tre anni fa Romanzo criminale è stato venduto in 54 Paesi. Per la prima volta un network americano trasmetterà una serie italiana come già acquistata in Germania, Inghilterra, Paesi bassi, Francia, e dalla Hbo Sudamerica».
In aprile partirà Sky Atlantic, il nuovo canale dedicato alla serialità: qualche titolo?
«Ci saranno quelle serie che più di altre lasciano un segno in chi le guarda, facendo ripensare ai loro protagonisti, allo sviluppo della storia. Un esempio perfetto è House of Cards, uno dei migliori prodotti degli ultimi anni con uno straordinario Kevin Spacey».
«House of Cards» ha fatto la fortuna di Netflix, il network della streaming tv. Cosa accadrà quando sbarcherà in Italia?
«Netflix rappresenta un modello di offerta non lineare molto interessante. Ma al di là delle modalità di visione, per una pay tv rimane fondamentale la qualità dei film e dei telefilm della library. Non ho alcun dubbio che quella di Sky on demand sia oggi e sarà domani molto superiore a quella della versione italiana di Netflix».
Lei ha fatto un’esperienza negli studi Fox a Los Angeles: che cos’hanno le serie americane più delle nostre?
«A Hollywood c’è un sistema industriale per cui ogni anno vengono prodotte oltre un centinaio di serie. È un investimento più sicuro di un film perché, quando viene ordinata da un network, i costi di una serie sono già coperti. Questo garantisce tempi di realizzazione impossibili per l’Europa, magari a scapito della creatività e della sofisticatezza. È proprio qui che la fantasia italiana potrà avere un ruolo importante nei prossimi anni».
I canali Cinema di Sky sembrano quelli con meno personalità. Una proposta a tappeto, senza punte...
«SkyCinema ha una penetrazione sul totale abbonati tra i più alti al mondo nell’ambito delle pay-tv. È ovvio che un’offerta di film si basi sul prodotto disponibile, e mentre oggi la produzione italiana è in netto miglioramento, in quella che arriva dalle major americane le opere davvero imprescindibili si contano sulle dita di una mano. Detto questo, la nostra offerta cinema è affiancata dall’on demand che vuol dire avere a disposizione ogni sera oltre 800 film. Mi pare difficile non trovarne uno di proprio gusto... Poi ci sono le operazioni speciali come il recente canale Star Wars...».
Sky ha sempre avuto nella tecnologia l’arma vincente. Per la prima volta, River arriva seconda nella fruizione streaming.
«Quando si lanciano prodotti innovativi il punto non è mai chi arriva primo, ma chi offre quello migliore. Pochi si ricordano ad esempio che a lanciare il mouse è stata la Xerox e non Apple...».
Cosa pensa dei talk show politici?
«Credo che, nonostante l’inflazione dei talk show, manchi ancora un programma nel quale i rappresentanti della politica e i leader dell’economia si trovino nella condizione di dover rispondere davvero alle domande che ciascuno di noi vorrebbe fare loro. Forse proprio nei programmi d’informazione sarà necessario superare il ruolo dei conduttori e approfittare delle opportunità che la tecnologia mette in mano a chi sta a casa».
Quale sarà l’hashtag della tv del futuro?
«Due parole: #emozione e #interazione».