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 2014  marzo 03 Lunedì calendario

UN PREMIO OSCAR CON UNA VITA NORMALE


A MAGGIO 2013, seduto in prima fila nell’intimo teatro da 90 posti della sua compagnia Labyrinth Theater Company, nel West Village di New York, Philip Seymour Hoffman se ne stava come suo solito concentrato e ultradisciplinato. Sempre vestito con un paio di pantaloni larghi e una felpa – uno dei tanti set tutti uguali e intercambiabili che sembrava avere nel guardaroba – Hoffman spronava senza soste il cast artistico e tecnico di A Family for All Occasions, la nuova opera del suo amico Bob Glaudini, e di cui lui firmava la regia. In preda alla sua tipica ricerca quasi religiosa della perfezione, curava ossessivamente ogni dettaglio. «Abbiamo dovuto discutere ogni minima questione, persino che tipo di portatovaglioli mettere sul tavolo da pranzo», ricorda il direttore della compagnia Danny Fieldman. «Anche dopo la prima dello spettacolo lui continuava a dire a tutti: “Ci stiamo ancora lavorando, siamo ancora in prova”». Quando lavorava, Philip Seymour Hoffman aveva sempre il controllo assoluto su ogni cosa. «Non aveva nemmeno bisogno di parlare, appena entrava in una stanza esercitava subito la sua autorità», dice un suo amico, Donovan Leitch. «Aveva quel tipo di magnetismo alla Bill Clinton». Lontano dal palco, invece, Hoffman stava silenziosamente perdendo il controllo della sua vita. Due giorni dopo la prima di A Family for All Occasions era entrato in rehab, dopo che l’abuso di farmaci aveva innescato una ricaduta nell’eroina. Nessuno, o pochissimi, in teatro, si erano accorti che c’era qualcosa che non andava: «Qualsiasi fossero i suoi problemi, noi non li abbiamo notati», ricorda Glaudini. «Era presente, sul pezzo, creativo, non ha mai avuto atteggiamenti da artista difficile o capriccioso». Era il primo segno della silenziosa lotta interiore di un uomo e di un attore conosciuto dai suoi tanti amici come esempio di feroce autodisciplina, oltre che di un talento apparentemente illimitato.

Col suo fisico massiccio, quegli occhi azzurro chiaro e una massa disordinata di capelli biondo-rossicci, Hoffman era il più riconoscibile degli antidivi di Hollywood, l’Uomo Qualunque che aveva dato tutto se stesso per diventare qualcuno. Indipendentemente dal film in cui appariva, era impossibile non rimanere catturati dal personaggio che interpretava: l’infermiere in Magnolia, il fonico tormentato e irrisolto in Boogie Nights, il ricco snob ne Il talento di Mr. Ripley, Lester Bangs in Quasi famosi – Almost Famous, persino lo sballato che dà la caccia agli uragani in Twister. «Phil era una star anticonvenzionale, in un momento della storia del cinema in cui non c’è niente di più prezioso dell’anticonformismo», dice il suo amico Ethan Hawke. «Oggi ci sono tutti questi attori bellissimi e con gli addominali scolpiti. E poi c’è Phil, che arriva e dice: “Ehi, anch’io ho qualcosa da dire! Non sarà qualcosa di bello, da sentire, ma è vero”. Ecco perché avevamo così disperatamente bisogno di lui». Grazie al fatto che non ha mai offerto un’interpretazione scontata, nemmeno nei ruoli più piccoli, e ha sempre dimostrato empatia per le debolezze dei suoi personaggi, Hoffman è stato spesso premiato, portandosi a casa l’Oscar per il suo ritratto perfetto di Truman Capote in Capote (2005). Sidney Lumet, che lo ha diretto in Onora il padre e la madre, lo ha paragonato a Marlon Brando (e Hoffman, com’era nel suo stile, ha sminuito il complimento). «Il miglior attore della sua generazione, e non solo», ha detto di lui Cameron Crowe che ci ha lavorato in Quasi famosi – Almost Famous, «l’attore degli attori». Anche mentre stava lottando per rimanere sobrio e pulito, Hoffman aveva una dedizione e una spinta interiore che non lo facevano rallentare mai. Alla sua morte aveva due film pronti, entrambi presentati all’ultimo Sundance Film Festival: A Most Wanted Man di Anton Corbijn (tratto dal romanzo omonimo di John Le Carré, ndr) e God’s Pocket di John Slattery. Inoltre, era stato scritturato per i due nuovi capitoli della serie Hunger Games (Il canto della rivolta: parte 1 e 2), che usciranno nei prossimi due anni. Doveva anche apparire in una serie televisiva su Showtime intitolata Happyish (di cui aveva girato l’episodio pilota, ndr) e dirigere il film Ezekiel Moss con Amy Adams e Jake Gyllenhaal protagonisti. «Voleva lasciarsi alle spalle i ruoli da perdente, non voleva più essere quello sfigato che si masturba in un angolo», dice un amico di vecchia data, lo sceneggiatore e regista Stephen Adly Guirgis. «Amava quei personaggi, li onorava, ma quando nel 2012 ha recitato in Una fragile armonia di Yaron Zilberman (dramma ambientato nel mondo della musica classica) ha affermato che si trattava della sua miglior interpretazione di sempre. Non aveva mai parlato di sé in questi termini, prima di allora».

Domenica 2 febbraio 2014 tutti questi progetti sono andati in fumo. Quella mattina la sua compagna (e madre dei suoi tre figli) Mimi O’Donnell manda un messaggio a un altro caro amico della scena teatrale, il drammaturgo David Bar Katz. Da qualche mese, da quando era ricaduto nelle sue dipendenze, Hoffman non viveva più in casa con la famiglia. Aveva preso un appartamento in affitto a un paio di isolati di distanza. Mimi scrive a Katz che quella mattina Philip doveva passare a prendere i figli, ma non si era ancora fatto vedere. Katz va a casa di Hoffman insieme alla sua assistente personale Isabella Wing-Davey, apre la porta e si trova davanti una scena orribile: Philip Seymour Hoffman, in maglietta e pantaloncini corti, in bagno, con una siringa infilata nel braccio sinistro. Morto. La polizia ha dichiarato di aver trovato nell’appartamento almeno 50 bustine di eroina, alcune usate, altre ancora chiuse. Katz contesta tale ricostruzione: «Non credo a quello che è stato detto dalla polizia. Io c’ero. Certo, non sono andato a frugare nei cassetti, ma è perché conoscevo bene Philip e so che lui non teneva niente nei cassetti. Buttava tutto per terra. Era un tipo un po’ disordinato». La causa della morte è stata individuata in un’overdose di eroina, anche se mancano ancora i risultati degli esami tossicologici. Philip Seymour Hoffman aveva 46 anni. Una notizia letteralmente scioccante, non da ultimo per il modo in cui fa ricadere Hoffman in uno di quei cliché di Hollywood contro cui aveva a lungo combattuto. Hoffman aveva ammesso pubblicamente i suoi problemi di dipendenza, e per oltre due decenni aveva lavorato duro per rimanere pulito. Nel 2005, intervistato da Rolling Stone, aveva parlato degli unici vizi che gli erano rimasti: «Mangiare e fumare, probabilmente più sigarette che cibo». Non aveva mai cercato di rendere affascinante lo stile di vita al limite: «Era fermamente convinto che per essere un grande artista non ci fosse bisogno di morire con un ago nel braccio», dice Guirgis. Tutti i suoi amici dicono che non aveva imboccato nessuna “spirale discendente”, anzi. «Semmai, si stava rialzando», dice Katz. Hoffman era immerso nel suo lavoro con un’intensità tale che a volte intimidiva i suoi colleghi. Non tollerava i capricci da star e la pigrizia sul set. Quando ebbe bisogno di perdere peso per un ruolo, come per Capote, fece tutto da solo, impostandosi autonomamente un’attività fisica e una dieta, che consisteva nell’entrare nel campo da basket della sua zona e fare un allenamento speciale: un tiro con la mano sinistra e una serie di flessioni e addominali, una corsa fino all’altro canestro, un tiro con la mano destra e ancora flessioni e addominali. E poi ripetere tutta la sequenza, da capo. Si era buttato così implacabilmente nel lavoro da chiedere agli amici di non andarlo a trovare sul set. «A volte Phil era così serio che faceva paura», racconta Katz. «Gli bastava dire: “Guardami bene”, la sola vista di quell’espressione mi mandava in palla. Phil era così serio da spaventarti». Una volta raccontò a un amico che in un ruolo non si era piaciuto a tal punto che pensava di mollare tutto, trasferirsi in Francia e mettersi a insegnare inglese. «Quando notiamo qualcuno pieno di talento non pensiamo mai a quanto lavoro e a quanta fatica ci vogliono per mettere in pratica quel dono», dice Guirgis. «Philip diceva spesso: “Fare una cosa bene ti procura lo stesso dolore che farla mediocremente”. Era spietato con se stesso. E ha evidentemente pagato un prezzo molto alto, per questo». Ethan Hawke usa un’altra espressione per dire la stessa cosa: «Andava in guerra in nome della sua arte».

Eppure c’era anche un altro Hoffman, un uomo tormentato, che dietro al carisma e alla fiducia in se stesso nascondeva un’inquietudine. «Si portava addosso un immeritato carico di vergogna. Interpretava così bene quei personaggi perché sapeva bene cosa fossero la colpa, la vergogna e la sofferenza». Sempre nell’intervista già citata con Rolling Stone aveva riconosciuto di avere molti lati nascosti: «Nessuno mi conosce, nessuno mi capisce. È un’altra delle cose che cambiano man mano che si invecchia, sembra che tutti ti capiscano. A me no. Non mi capisce nessuno». Per quanto possa sembrare assurdo in retrospettiva, all’inizio Philip non pensava di fare l’attore. Aveva altri sogni. Cresciuto a Fairport, alla periferia di Rochester, nello stato di New York, era figlio di genitori divorziati. Suo padre lavorava alla Xerox, sua madre era un giudice. «Sembrava aver capito da subito che ci fosse un aspetto oscuro e triste nel comportamento umano», dice Guirgis, «ma per il resto era solo un fottuto atleta di Rochester, ecco quello che era». Lo è rimasto per sempre: i suoi amici di New York ricordano quanto forte potesse colpire una palla di whiffleball (una variante del baseball, ndr) o la facilità con cui li poteva mettere a terra: «Mi batteva sempre nella lotta », dice Katz. «Gli dicevo: “Sei l’unico uomo al mondo che diventa più forte mangiando gelati”». Al secondo anno di liceo, un infortunio al collo rimediato durante un incontro di lotta (ma aveva anche giocato a football) lo costrinse a rivedere le sue ambizioni. Era già intrigato dal teatro e aveva partecipato a una rappresentazione scolastica di Tom Sawyer. Venne, però preso dal demone della recitazione e recitò ne Il crogiuolo e Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller: «Quando è uscito per la prima volta sul palco nei panni di Willy Loman, tutti abbiamo pensato: “Cazzo!”», ricorda un compagno di classe. Si era iscritto alla NYU e nel 1989 si era laureato in Arti drammatiche, ma al college aveva iniziato a bere e a prendere droghe, finché, come ha detto lui stesso, «il livello avanzato» raggiunto dal suo consumo non divenne un problema serio. «Sono stato preso dal panico, ho cominciato a chiedermi se sarei stato in grado di fare le cose che volevo fare», disse nel 2006. A 22 anni decise di andare in clinica per disintossicarsi. Considerato l’impegno che metteva in ogni cosa che faceva, la notizia non sconvolse i suoi amici d’infanzia. Dopo alcuni ruoli minori, la sua carriera di attore decollò nel 1992, quando ottenne una piccola parte in Profumo di donna, (collaborò anche al casting, facendo da controparte durante le audizioni ai vari attori che si presentano al provino. Tra quelli scartati c’era anche Ethan Hawke: «Non avrai la parte, amico», gli disse Hoffman, «sei un tipo troppo interessante»). Nel 1993 si trasferì a Los Angeles e recitò in Amarsi e Twister. Nel 1997 arrivò la brillante interpretazione in Boogie Nights, la monumentale opera di Paul Thomas Anderson sull’industria del porno, seguita un anno dopo da Happiness e Il grande Lebowski. Nel 1999 Hoffman tornò a New York perché voleva dedicarsi al teatro, ma continuò a regalare performance indimenticabili in Magnolia e Il talento di Mr. Ripley. Cameron Crowe gli mandò la sceneggiatura di Quasi famosi – Almost Famous, convinto che fosse perfetto per la parte del critico rock debosciato Lester Bangs. Lui la lesse, accettò e qualche giorno dopo si presentò nell’ufficio di Crowe: «Vestito esattamente come Lester: giacca di pelle nera e una scintilla negli occhi», ricorda il regista. «Aveva una presenza straordinaria, che non potevi fare a meno di notare. Proprio come Lester». In pochi ciak (e nonostante avesse l’influenza) Hoffman girò l’ormai leggendaria scena della telefonata con il reporter di RS alle prime armi, William Miller (interpretato da Patrick Fugit). Tra una scena e l’altra, se ne stava in un angolo da solo ad ascoltare in cuffia le registrazioni della voce di Lester Bangs: «Se le toglieva un secondo prima di girare», ricorda Crowe. «Si preparava la strada e filava via liscio. Era elettrizzante stare a guardarlo. Era più rock&roll di qualsiasi altra cosa abbia mai visto».
Nonostante il favore di critica e pubblico, Hoffman però non venne preso in considerazione per ruoli da protagonista. A Hollywood pensavano che un tipo dall’aspetto così anticonvenzionale non potesse reggere da solo un film. Nei primi anni 2000 un suo amico ed ex coinquilino di Los Angeles, il regista e scrittore Todd Louiso, iniziò a cercare finanziamenti per il primo film da protagonista di Hoffman, Love Liza, una commedia dark su un uomo che cerca di superare il suicidio della moglie. «Mi dicevano: “Lui come protagonista? È una follia”. S’innervosivano, a sentirne parlare». Solo quando Louiso inserì nel cast anche la più nota attrice Kathy Bates, Love Liza riuscì a raccogliere un piccolo budget da un milione di dollari. Ma anche se non ottenne ruoli di primo piano, Hoffman era praticamente ovunque. Negli anni successivi comparve in molti film diversi, dal thriller (Red Dragon) alla commedia sentimentale (E alla fine arriva Polly), al filmone epico (Ritorno a Cold Mountain), prima di avere finalmente la sua opportunità di guidare da solo un film con Capote. «Non ero sicuro di farlo», dichiarò a RS, «si tratta di un progetto molto rischioso. Non c’è niente di male a prendersi dei rischi, ma non quando non sei sicuro di essere la persona giusta per quel ruolo». Come ci si poteva aspettare, Hoffman centrò in pieno quello che sarà un ruolo fondamentale per la sua carriera. Come ricorda Ethan Hawke: «All’improvviso non era più un attore “promettente” o “interessante”, ma aveva il controllo totale di una parte molto complicata. Era cresciuto». Non solo come attore: nel 2003 lui e la costumista Mimi O’Donnell, sua compagna dal 1999, ebbero il primo figlio, Cooper, seguito dalle figlie Tallulah e Willa. Hoffman reagì alla vittoria dell’Oscar come solo lui poteva fare: continuando la sua vita normale, accompagnando i figli a scuola e frequentando i suoi posti preferiti nel West Village, fumando sigarette e bevendo caffè. «Non era fatto per curarsi dell’Oscar. Era felice? Sì, certo. Non disprezzava i premi, ma in un certo senso era per lui l’equivalente di strappare una risata facile. Sei contento, ma non è quello che conta, l’importante è il tuo lavoro. E quello per lui veniva sempre prima», dice Katz.

Nel 2007 Hoffman interpreta uno dei suoi ruoli più drammatici nel thriller Onora il padre e la madre, diretto da uno dei suoi idoli, Sidney Lumet, che ai tempi aveva 83 anni. Anche se lo conosceva da molto tempo, Ethan Hawke ha finalmente l’opportunità di lavorare con Hoffman in quel film e scopre che è più dura di quello che pensava: «E stata la prima volta in cui lavorare con un attore della mia generazione mi rendeva nervoso», dice Hawke. «Se cercavi di compiacere il pubblico o facevi qualche stronzata, ti beccavi un’ondata di disapprovazione. Se eri anche solo un pelo in ritardo su una battuta arrivava quello sguardo: “Sei un dilettante? Oh, cazzo!”». Durante le prove – racconta la coprotagonista Marisa Tomei – Hoffman girava sempre con una pila di fogli in mano: «Diceva che era un diagramma dell’evoluzione del suo personaggio. Sembravano geroglifici. Diceva che doveva continuare a far girare la ruota». Altri amici ricordano quanto fosse esigente, sempre perché voleva che i livelli della performance e della produzione fossero al massimo. Katz cita un reading di una sua opera teatrale, alla fine del quale molte persone del pubblico si avvicinarono per ringraziarlo, in lacrime. E Hoffman in quell’occasione gli disse: «Non lasciare che questa cosa entri nella tua testa. Quest’opera ha bisogno ancora di molto lavoro». Aggiunge Katz: «Secondo lui la reazione emotiva non era mai autentica. E Phil aveva sempre ragione. Era come avere per amico una macchina della verità». Un’altra volta, una battuta della sua sceneggiatura provocò una risata tra il pubblico. Hoffman si girò di scatto e gli disse: «Vuoi diventare un clown? Vuoi far ridere la gente? Toglila». Fuori dal Public Theater, una volta Hoffman è stato visto camminare avanti e indietro, lamentandosi e imprecando per qualcosa della sua produzione che non andava come doveva. «La vita non è mai così bella come il giorno in cui fai bene il tuo lavoro. Quello che resta è la soddisfazione che ti porti dietro. Ed è il massimo che puoi ottenere, non so se mi spiego».
Negli ultimi anni, lavorando con i suoi amici in teatro e contemporaneamente a Hollywood, Hoffman sembrava aver raggiunto nuove vette. E stato nominato all’Oscar come miglior attore non protagonista tre volte in cinque anni, per La guerra di Charlie Wilson (2007), Il dubbio (2008) e The Master (2012). Ha fondato la compagnia teatrale off-Broadway Labyrinth insieme a John Ortiz, e ne ha fatto la sua seconda casa. La sede è a pochi passi dal suo appartamento nel West Village. «Eravamo molto legati, ma nel nostro rapporto tutto girava sempre e solo intorno al lavoro», dice Guirgis, «non è che andavamo a pescare insieme, per capirci». Hoffman era il rispettato patriarca della compagnia, generoso al punto da versare 300mila dollari nelle sue casse per mandarla avanti, e da pagare l’affitto di molti amici e collaboratori. Sicuramente non spendeva soldi in vestiti: «Solo Mimi è riuscita a introdurre qualcosa di nuovo nel suo guardaroba», dice Guirgis ridendo. «Gli diceva sempre: “Phil, questo è il mio lavoro!”, ma lui riusciva sempre a fare in modo che i vestiti sembrassero vecchi di 20 anni». Hoffman gestiva il suo aspetto fisico con uno splendido senso di autodenigrazione. Due anni fa si è presentato a un’intervista televisiva dopo aver attraversato Manhattan in bicicletta, sudato fradicio, ha infilato la bici in ascensore e ha gentilmente declinato l’invito di passare al trucco: «Cosa ci vado a fare?», ha scherzato, «è inutile».
Ma ultimamente sembrava più provato del solito. Gli amici dicono che non era più lo stesso da quando si era immerso nel ruolo di Willy Loman nella versione di Morte di un commesso viaggiatore portata in scena nel 2012 a Broadway da Mike Nichols, e per la quale ha ottenuto la sua terza nomination ai premi teatrali Tony Award (le altre due furono nel 2000 per True West di Sam Shepard, in cui condivideva la scena con John C. Reilly, e nel 2003 per Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill, ndr). Era il ruolo della sua vita, e Hoffman ci si è buttato dentro con tutto il corpo, scoppiando a piangere sul palco quasi ogni sera. «Quell’opera lo ha torturato», dice Katz, che lo incontrava ogni mattina mentre accompagnava i figli a scuola. «Era disperato, lo è stato per tutto il periodo in cui lo spettacolo è andato in scena. Qualunque cosa facesse durante il giorno, sapeva che alle otto di sera sarebbe tornato in teatro a farsi del male. Se fai una cosa che ti fa soffrire a lungo ti rimane dentro, e lui la faceva ogni sera. A fine produzione mi ha detto che non avrebbe più recitato in teatro per un bel pezzo». Più tardi, quello stesso anno, era andato a vedere Ivanov, la produzione off-Broadway dell’opera di Anton Cechov interpretata da Ethan Hawke (Hoffman era molto amato da colleghi e amici per la sua disponibilità ad andare a vedere i loro spettacoli per offrire il suo aiuto: «Era uno che si faceva sentire e diceva la sua», dice Guirgis). Dietro le quinte, Ethan Hawke lo aveva trovato diverso, più turbato: «Ivanov parla della depressione, del buco nero in cui sprofondi, quando ti colpisce. A essere sinceri, era impressionante vedere quanto fosse stato colpito dallo spettacolo. Amava quel testo, lo sentiva molto suo. E non era nel momento più felice della sua vita», dice Hawke. Che ricorda di non averlo mai visto bere fino alla messa in scena di Morte di un commesso viaggiatore. Ma non molto tempo dopo quello spettacolo, Hoffman aveva confessato a un amico che, dopo 23 anni da sobrio, forse poteva correre il rischio di ricominciare, «con moderazione». La primavera successiva era già entrato in rehab. Eppure il periodo di disintossicazione non era bastato per tenere a freno le sue dipendenze. Alla fine del 2013, dietro insistenza della compagna Mimi, se n’era andato di casa e si era trasferito a vivere nell’appartamento che aveva affittato come studio nel West Village (lo ha fatto, diceva agli amici, perché non riusciva a lavorare e a imparare a memoria le battute con tre bambini che gli giravano intorno). «Si sentivano ogni giorno, e l’accordo era che sarebbe tornato a casa appena si fosse ripulito», dice Guirgis. «Lei era legata a lui per la vita me lo ha detto proprio lei e lui lo stesso: era legato a vita a lei». A dicembre Hoffman sembra avere una nuova ricaduta. Ha presenziato a una riunione di Narcotics Anonymous in cui ha dichiarato che stava misurando il suo essere pulito in termini di «giorni». Meno di una settimana prima di morire ha parlato con un giornalista dal set di Hunger Games, biascicando cose senza senso, dando l’impressione di essere addormentato a metà pomeriggio e di non ricordare i nomi delle persone con cui stava lavorando. Hanno iniziato a circolare foto di lui sconvolto che beveva in un bar, da solo. La notte del 1° febbraio 2014, dopo aver parlato al telefono con O’Donnell, ha ritirato 1200 dollari da un bancomat per consegnarli a due uomini, che secondo la polizia sono stati i suoi fornitori di eroina. Qualsiasi cosa abbia spinto Hoffman verso lo sballo fatale, secondo gli amici non è stato un impulso suicida, ma una ricaduta rivelatasi mortale. «La dipendenza cerca sempre un modo per tornare e riprendere possesso di te, e con lui l’ha trovato. Phil era stato un ragazzo drogato, ora era un uomo adulto con un’incredibile volontà», dice Katz. «Un 40enne che diceva a se stesso: “Non ho mai toccato ne alcol ne droga in tutta la mia vita adulta”. Deve aver pensato: “Forse adesso ce la posso fare a gestire la situazione”».
L’opera attoriale lasciata da Philip Seymour Hoffman resta un tributo alla sua lotta per raggiungere l’eccellenza, alla sua implacabile necessità di creare e lavorare. 55 film tra televisione e cinema sono un numero incredibile per chi ha lavorato da professionista solo 23 anni. «Come ha fatto?», si chiede Louiso. «Ha incanalato nel lavoro la sua personalità tendente alla dipendenza». Forse non fermarsi mai era un modo per distrarsi da se stesso. Jeff Roda, un amico, scrittore e produttore, ha scritto in suo onore: “Phil mi ha insegnato qualcosa sul genio. E cioè che si impegna senza pregiudizi, crede senza riserve e lavora duro, senza risparmiarsi e senza sforzo. Spinge sempre verso il limite, ovunque esso sia”. La sua morte lascia un vuoto enorme, nella sua famiglia, tra gli amici, nella sua compagnia teatrale e nel mondo dell’arte. E lascia senza risposta la domanda su come sia possibile che un navigato professionista, con un enorme e così consolidato spirito di autocontrollo, abbia potuto ricadere nella dipendenza per il tempo sufficiente a un crollo fatale. «Si è trattato di un unico, tragico attimo», dice Katz. «Si stava riprendendo, voleva vivere. La spirale discendente è un cliché giornalistico, non c’era nessuna caduta libera». I giorni dopo la sua morte, una scia di amici – Paul Thomas Anderson, Joaquin Phoenix, Cate Blanchett e altri colleghi – sono passati da casa di Hoffman per rendergli omaggio. Una veglia notturna è stata organizzata nel giardino di fronte al Labyrinth, la luce delle candele ha illuminato il prato innevato. Lo sceneggiatore Eric Bogosian ha recitato un elogio funebre per l’amico: «Nel mondo delle attività creative, sta all’artista decidere dove posizionare l’asticella che segna il limite della sua arte. Phil l’ha messa più in alto possibile. Più in alto del livello più alto. E poi si è spinto fino a lì, finché i suoi sforzi non hanno ridefinito il concetto stesso di quello che noi chiamiamo “recitare”. Voleva conquistare il mondo». Centinaia di persone hanno acceso le candele e le hanno alzate al cielo. Nonostante il vento freddo portato dalla tempesta invernale, nessuna delle candele si è spenta.