Massimiliano Castellani, Avvenire 2/3/2014, 2 marzo 2014
L’URLO DI TARDELLI
Come è distante la mente di Marco Tardelli da quegli anni ’70 in cui in un Milan-Juventus, da “Schizzo” qual era, stabilì il record per un ammonizione: 3 secondi per un fallo su Gianni Rivera. Un ricordo che oggi, giunto alla soglia dei 60 anni (li compie il 24 settembre), lo fa sorridere dal suo rifugio londinese da dove osserva e commenta (anche per la Rai) il calcio italiano con un distacco “latino-british”, da perfetto vicino di casa di Josè Mourinho.
Tardelli, trova anche lei che Antonio Conte sia il “Mourinho italiano”?
«Lo sport dei paragoni è un po’ ipocrita e scellerato, ognuno ha il suo talento. Mourinho lo incontro spesso al ristorante, trovo che sia un uomo molto intelligente ancor prima che un grande tecnico. Conte sa il fatto suo…».
Lei ha giocato con Fabio Capello, quindi nella querelle Conte-Don Fabio da che parte sta?
«Da nessuna parte, dico però che se fai il mestiere dell’allenatore di calcio è da contratto accettare serenamente anche le critiche, altrimenti si arriva allo scontro senza confronto, tipo Renzi- Grillo. Comunque Capello ha detto solo la verità sul conto del nostro campionato…».
E quale sarebbe questa verità?
«Che la Serie A oggi non è al passo con gli altri tornei d’Europa. Che gli stranieri più forti non ci pensano proprio a venire a giocare in Italia perché sanno che sono meno pagati, che c’è troppo stress e si gioca in stadi d’inferno, peraltro svuotati. E io aggiungo che c’è troppo poco spazio per i giovani italiani e che nell’Inter tutta straniera ho visto fare il capitano al giapponese Nagatomo, ed è tutto dire».
Contro “l’inferno” nei nostri stadi stanno rimediando con le Curve chiuse.
«Se pensano che quella sia la soluzione sono fuori strada. In Inghilterra trent’anni fa dopo la tragedia dell’Heysel, che purtroppo ho vissuto dal campo, hanno debellato gli hooligans e si sono messi a costruire stadi moderni, pensati per le famiglie che vogliono andarsi a vedere la partita in santa pace. Durante una gara di Premier, il tifoso violento lo prendono e lo schiaffano nella cella interna allo stadio e 24 ore dopo viene processato. Se viene condannato, ha chiuso con gli stadi. Da noi gli dai il Daspo e la domenica dopo rientra in Curva».
Ha mai pensato che la sua Juve giocando allo Juventus Stadium avrebbe vinto di più?
«Noi abbiamo conquistato tanti scudetti e poche Coppe, ma perché allora la mentalità era: il campionato prima di tutto. Il primato della Champions è la conseguenza del calcio-business che mette in cima alla scala valoriale il successo finanziario e, poi, quello in campo. Il Milan e Galliani questo gioco l’hanno capito prima e, infatti, delle società italiane è quella che ha vinto di più in Europa e nel mondo».
Perché la “bandiera”Tardelli non è nell’organigramma della Juventus?
«Perché quando ci sono stato, a capo della Juve c’era Cobolli Gigli e tra noi regnava l’incompatibilità. La mia funzione era quella di raccordo tra la squadra e la società, mi è stato impedito di fare fino in fondo il mio lavoro e così nel 2010 me ne sono andato. Ora quel ruolo lo ricopre Pavel Nedved, perciò non credo che abbiano più bisogno di Tardelli».
Con Andrea Agnelli al comando è tornato lo “Stile Juventus”?
«Intanto è tornato lo spirito tradizionale: la capacità e la voglia di vincere. Andrea Agnelli era piccolo, ma ha vissuto da vicino la nostra Juventus, quella dello zio (l’Avvocato), di suo padre Umberto e del presidente Boniperti, perciò conosce modalità e metodi per riproporre lo stesso “Stile” che, comunque, non può mai prescindere dalle vittorie».
La Vecchia Signora che vince tanto fa riaffiorare l’accusa della “sudditanza psicologica” da parte degli arbitri e c’è chi grida a una “nuova Calciopoli”.
«Io sto ancora aspettando che qualcuno mi spieil ghi la “prima Calciopoli”... Adesso la Fiorentina si sente vittima, la Juve sarebbe protetta, l’Inter dice che non gli danno mai i rigori. La solita commedia all’italiana, su. Nella Premier l’arbitro è marginale ai fini del risultato e se sbaglia gli viene riconosciuta la buona fede. La cattiva cultura del nostro Paese si specchia nel calcio, abbiamo perso la fiducia negli altri e pensiamo di essere sempre le vittime, i derubati. Ma così non si va da nessuna parte».
Cosa salva ancora di questo nostro povero pallone italico?
«Il gioco, perché è solo quello che mi interessa. Poi, mi piace confrontarmi con qualche protagonista speciale. Ho avuto la fortuna di intervistare per la Rai Antonio Cassano che è un grande giocatore e un ragazzo di gran cuore a cui voler bene. Avrei voluto intervistare anche Mario Balotelli, ma ancora non me l’hanno permesso. Mario ha tutto per diventare un fuoriclasse, ma gli ricordo che per essere riconosciuto come tale deve giocare almeno 10 anni di fila ad altissimo livello, senza “colpi di testa”».
Oggi, intanto, Balotelli è costretto a saltare la sfida con la Juve del tanto discusso Marchisio, è ancora lui il suo “erede”?
«Io lo dicevo per carineria che era il mio erede, ma Marchisio è diverso da me e magari anche più bravo. Alla Juve spesso fa panchina, ma succede anche a un Di Maria al Real Madrid, quindi, se ci tiene a restare e la società crede ancora in lui è giusto che vadano avanti. Pogba? Geniale, però se dal Paris Saint Germain davvero offrissero 60-70 milioni di euro io glielo impacchetterei e lo consegnerei a domicilio agli sceicchi».
Via Allegri, al Milan hanno puntato su Clarence Seedorf, il mister del “calcio del sorriso”. Una scelta azzeccata?
«Se non vinci c’è poco da ridere… Seedorf l’ho allenato all’Inter dove ebbe problemi, ma al Milan ha vinto tanto ed è diventato un “allenatore in campo”. Questa panchina per Clarence è una sfida difficile perché se non hai a disposizione una squadra di livello non puoi fare miracoli. E in questo momento i risultati dicono che Milan non è competitivo, né in Italia, né in Europa».
Quanto è competitiva la Nazionale di Prandelli in vista dei Mondiali del Brasile?
«Nonostante i limiti e le problematiche del nostro calcio, Prandelli ha tra le mani una grande squadra che se si gioca bene le sue carte può arrivare tra le prime quattro. Se poi riuscisse a recuperare Pepito Rossi…».
Quanto le manca una panchina da condividere con Trapattoni?
«Un po’, ma siamo costantemente in contatto e l’esperienza con l’Irlanda rimane una pagina epica per entrambi. La Costa d’Avorio? L’Africa mi attira, io ho già allenato laggiù, l’Egitto, ma potrebbero esserci altre nazionali all’orizzonte o, magari, anche club stranieri. Club italiani no, non è proprio il momento».
Per chiudere una curiosità “spirituale”: il Trap porta sempre con sé l’ampolla con l’acqua benedetta, ma è vero che lei giocava con una Madonnina nei calzettoni?
«Vero. Me l’aveva spedita da Vicenza un tifoso juventino pregandomi di metterla. Così con un cerotto la fissai sui calzettoni e ho iniziato a portarla in campo dall’inverno dell’82… Qualcuno da Lassù deve aver visto: a luglio a Madrid segnai il secondo gol nella finale con la Germania e l’Italia vinse i Mondiali».