Bernardo Valli, la Repubblica 1/3/2014, 1 marzo 2014
LA DOPPIEZZA DELLO ZAR
Assomiglia a una trovata teatrale la messa in scena del Cremlino. L’imprevedibile linguaggio russo, oscillante tra minaccia e distensione, invita alla prudenza. Da un lato il governo di Kiev denuncia l’irruzione in Crimea di truppe russe, duemila uomini con elicotteri, di fatto un’invasione dicono i rappresentanti ucraini in quella provincia a maggioranza russa.
Dall’altro la regia di Vladimir Putin nelle ultime ore appare una lenta, graduale svolta nella crisi. In realtà, colto di sorpresa dalla rivoluzione nazionalista o antirussa a Kiev, Putin si comporta come un prestigiatore.
Usa d’astuzia. Passa dalla carota al bastone. In Crimea mette in azione gli uomini della base di Sebastopoli, abusando dei diritti dei militari russi in quella provincia, e adottando la tattica già praticata in Georgia nel 2008; mentre sul piano internazionale garantisce agli interlocutori occidentali l’integrità del Paese. Per lui la Crimea, provincia russa aggregata all’Ucraina soltanto nel 1954 dal potere sovietico, resta forse una terra da recuperare. O comunque dove mostrare la sua forza militare. Questo gli dà popolarità in patria ed anche tra i circa dieci milioni di russi col passaporto ucraino (o col doppio passaporto), che vivono principalmente nelle province orientali. Una popolazione che sente i richiami dei parenti nella patria d’origine. Putin appare come il protettore, che può tenere a bada le intemperanze nazionaliste, spesso estremiste di Kiev, dove le barricate della Majdan sono ancora in piedi.
La duplicità di Putin alimenta poi un altro dramma, che si svolge su due palcoscenici e che ha altri obiettivi. Il primo è a Mosca, e il laconico protagonista non può essere che lui, Putin. Il secondo sipario si apre a Roston sul Don, e l’attore è Viktor Yanukovic, fuggito da Kiev dove il parlamento l’ha destituito e denunciato per strage al Tribunale penale internazionale, ma che in Russia è chiamato ancora “il presidente”, come se rappresentasse la sola autorità ucraina.
A Mosca, nella notte, il presidente fa diffondere una dichiarazione in cui invita il governo a «continuare i contatti con i partner di Kiev» per trattare i problemi economici urgenti. Dalle poche parole scritte, dettate dallo stesso Putin, emerge un uomo col cuore in mano, preoccupato dei guai umanitari che affliggono la sorella ribelle ucraina. Sarebbe sconveniente accennare ai centocinquantamila soldati in stato d’allerta, con aerei e blindati, lungo il confine occidentale.
Sarebbe altrettanto fuori posto mettere sul tappeto i tanti nodi politici. Ad esempio la negata legittimità
al nuovo governo di Kiev e al parlamento voltagabbana che l’ha eletto, dopo avere legiferato per anni al servizio di Viktor Yanukovich, il presidente che ha poi destituito. Sarebbe puro cinismo, Vladimir Putin lo evita, e sposta la crisi sul solo terreno economico, che è anche quello umanitario. Al suo governo ordina di proseguire i contatti (quindi già iniziati) con i partner di Kiev, definiti banditi, fascisti o addirittura nazisti dalla propaganda russa. Loro sono presentati da Putin come gli interlocutori validi. Lo sono già e lo restano. E sulla loro identità non ci sono dubbi: non possono essere che i responsabili politici ai quali spetta di gestire gli affari economici. Persone dunque non molto lontane dal governo illegale appena eletto dal parlamento, anch’esso ritenuto illegale da Mosca. Forse si tratta di stessi membri del governo.
Non una parola di Putin per Viktor Yanukovich il presidente destituito a Kiev ma ancora presidente per Mosca. Cosi lo chiama del resto la presentatrice che annuncia la sua conferenza stampa su un canale della tv pubblica. Questa è la seconda scena, poche ore dopo la diffusione della dichiarazione di Putin. Yanukovich è a Rostov sul Don dove è finito dopo un rocambolesca fuga, da Kiev e attraverso la Crimea, coadiuvato con tutta probabilità dai servizi russi. Non dai suoi, di cui eppure poteva o doveva disporre come capo dello Stato ucraino. Non si è fidato. Se l’è svignata nella notte dalla residenza privata, alle porte della sua capitale, senza neppure pensare all’esercito, del quale era il comandante supremo. La gelida, ma protocollare, accoglienza trovata in Russia ha espresso la scarsa considerazione in cui era ed è tenuto il leader che se l’è data a gambe levate, senza tentare la minima resistenza, e che ha cercato rifugio nella grande potenza protettrice come un esule qualunque.
Il suo disprezzo Putin l’ha dimostrato non citandolo nella sua prima dichiarazione dopo la vittoria della rivoluzione nazionalista di Kiev. Invece nel breve documento invita il governo «a continuare i contatti con i partner di
Kiev». Yanukovich è ormai soltanto una comparsa. È presentato come il legittimo presidente, nell’attesa di stabilire i rapporti con il nuovo potere di Kiev, ma non merita neppure di essere ricevuto al Cremlino. Putin non l’ha invitato, né sentito. E lui, Yanukovich si lamenta alla televisione. Dice di essere «stupito dal silenzio di Putin». E’ stato accolto come un ospite di riguardo, gli è stata messa a disposizione un’ora di televisione, ma le porte del Cremlino sono rimaste chiuse. E’ patetico l’ex presidente quando ribadisce di essere ancora il legittimo capo di Stato della Repubblica ucraina. Non chiede un intervento militare, ma ripete che la Russia «deve, è obbligata ad agire» per riportare la legalità a Kiev. Si presenta bene, sembra disteso, riposato Viktor Yanukovich, ma la situazione lo rende patetico. Egli spera in una telefonata di Putin e forse l’avrà.
La regia di Putin, che mette in scena i “partner di Kiev” e che esclude il presidente fantoccio, concedendogli uno sfogo televisivo, non lascia intravedere soltanto
l’intenzione di allacciare, con cautela, e al momento soltanto per problemi economici, il nuovo potere di Kiev. Là, nella capitale ucraina, c’è la Tymoshenko, donna di carattere con la quale ha avuto dissensi politici gravi, ma che ha apprezzato. E per la quale ha avuto gesti di amicizia quando era in carcere. Il nuovo primo ministro, Arseni Yatseniuk, è un suo fedele compagno di partito. E’ un europeista, ma un moderato, col quale si può dialogare. Non uno della Piazza. Putin non si è limitato ad esortare il suo governo a continuare i contatti con quelli dio Kiev. Gli ha chiesto di consultarsi con i partner stranieri e di lavorare con le grandi istituzioni internazionali, il G8 e l’FMI, per un’azione economica in favore dell’Ucraina che sta fallendo. Le stesse idee ha probabilmente espresso ad Angela Merkel e a David Cameron nelle telefonate che ha fatto a Berlino e a Londra, e poi a Bruxelles, al presidente dell’Unione europea. Spostare la crisi ucraina sul terreno economico è un’abile manovra di Putin che da potenziale aggressore diventa cosi un soccorritore (avendo una forte presenza economica nel paese). Ma la sua credibilità subisce un duro colpo quando arrivano le notizie dalla Crimea.