Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 01 Sabato calendario

ROMA — Ignazio Marino scende dalle barricate. Il governo Renzi approva un nuovo decreto, il terzo, per mettere al sicuro i conti della capitale e il sindaco che, nelle ultime 48 ore, aveva evocato i forconi per i politici, minacciato di bloccare la città, licenziare i dipendenti comunali e lasciare i rifiuti per strada, prova a ricucire lo strappo: «Non c’è stato alcun attacco a Renzi, solo una difesa orgogliosa dei romani», dice a 24 ore da una telefonata di fuoco col premier

ROMA — Ignazio Marino scende dalle barricate. Il governo Renzi approva un nuovo decreto, il terzo, per mettere al sicuro i conti della capitale e il sindaco che, nelle ultime 48 ore, aveva evocato i forconi per i politici, minacciato di bloccare la città, licenziare i dipendenti comunali e lasciare i rifiuti per strada, prova a ricucire lo strappo: «Non c’è stato alcun attacco a Renzi, solo una difesa orgogliosa dei romani», dice a 24 ore da una telefonata di fuoco col premier. Il risultato incassato con il via libera alla norma in consiglio dei ministri, però, se da un lato consente al Campidoglio di mettere in equilibrio il bilancio 2013 e impostare il lavoro su quello 2014, dall’altro mette sotto tutela i conti della capitale. Paletti rigidi, prescrizioni da rispettare e, soprattutto, un ferreo piano di rientro triennale dal debito che il Comune di Roma dovrà sottoporre periodicamente a Viminale, ministero dell’Economia e Parlamento. Non è un commissariamento ma d’ora in poi la città sarà “osservata speciale”. Tanto è costato alla capitale l’anticipo di 570 milioni, «prevalentemente derivante dai tributi versati dai cittadini romani», che passano dalla gestione commissariale (che governa attualmente 14,9 miliardi di debiti pregressi) a quella ordinaria così suddivisi: 335 serviranno per il 2013 a coprire in parte il buco di 816 milioni ereditato dalla giunta Marino. Gli altri 245, invece, verranno usati sul 2014. In cambio il Campidoglio dovrà seguire un rigoroso programma che il decreto (ancora in fase di scrittura finale) elenca punto per punto, comprese dismissioni e liberalizzazioni. La norma fissa vincoli sull’acquisto di beni e servizi, blocco delle assunzioni, «ricognizione dei fabbisogni di personale nelle società partecipate» (dicitura che apre alla mobilità interna tra le aziende capitoline), adozione di «modelli innovativi per la gestione dei servizi di trasporto pubblico locale e raccolta dei rifiuti, ricorrendo anche alle liberalizzazioni». In questa direzione va anche la possibilità di «dismettere e valorizzare quote del patrimonio immobiliare del comune o di liquidare, se necessario, quote delle società partecipate che non risultino avere come fine sociale attività di servizio pubblico». Il primo livello delle aziende partecipate dal Campidoglio segna quota 21 e, già ora, iniziano a tremare società come Zetema, Risorse per Roma, Farmacap e Assicurazioni di Roma. Parallelamente, il Campidoglio dovrà quantificare i costi della città nelle sue funzioni di capitale: tra cortei, sicurezza delle istituzioni, grandi eventi (come la canonizzazione dei papi prevista per fine aprile), pulizie straordinarie la stima è di 500 milioni. Da parte sua, Marino assicura che non alzerà le tasse dei romani, nonostante il nuovo decreto conceda ai sindaci di rimodulare la Tasi fino allo 0,8 per mille. Poi insiste: «Roma con questo provvedimento non riceve un euro dalle tasse degli italiani». Gli risponde il segretario della Lega, Matteo Salvini: «Il decreto è una porcata. Quando lo porteranno in Aula, tireremo i petardi». A criticare il primo cittadino della capitale arriva anche quello di Milano, Giuliano Pisapia: «Rispetto a lui, avrei avuto un atteggiamento diverso: le dimissioni si danno o non si danno, non si preannunciano. Né si può creare una situazione che può danneggiare il paese».