Michele Primi, Rolling Stone 28/2/2014, 28 febbraio 2014
PROFESSIONE EDICOLANTE
L’alba di Bologna è limpida e fredda. Sono le 5.30 del mattino, gli autobus non circolano ancora, ma l’edicola è già aperta. Roberto Nepoti ha preparato il caffè, con la moka e il fornelletto elettrico che tiene nascosti da qualche parte in quel piccolo spazio privato che è il segreto di ogni edicola. «Buongiorno. Questo è il nostro orario di apertura, ogni mattina. Alle cinque e quarantacinque arriva Il Resto del Carlino. Per fortuna lo porta la distributrice più bella di Bologna».
Da ragazzo, a Milano, ho passato molte ore in quei 20 metri quadrati di non luogo, chiuso in un angolo impossibile in cui, incastrato al millimetro, c’era di tutto (televisore, stufetta, radio, sigarette, un telefono fisso), a parlare di tutto e di niente con l’edicolante notturno di piazzale Oberdan, zona Porta Venezia.
Oggi sono a Bologna in piazzale Atleti Azzurri d’Italia, quartiere Ponticella, di fianco allo stadio di baseball “Gianni Falchi” dove gioca la Fortitudo, a un orario impossibile, per raccontare la crisi dell’editoria da dietro il vetro di una delle 450 edicole del capoluogo emiliano. Ne avevamo parlato in uno dei numeri scorsi di Rolling Stone con un editoriale che voleva essere un po’ una provocazione (pubblicato sul numero 120, ottobre 2013, ndr). Per tutta risposta, Roberto Nepoti ci aveva scritto, con un invito: "Venite a vedere come funziona. Il caffè lo offro io”, e quindi eccoci qua.
Conosciamo bene i dati, i numeri delle vendite, il calcolo dei resi, il calo della raccolta pubblicitaria e tutto il resto. Ma che cosa succede a un giornale quando esce dalla redazione e dallo stampatore e arriva ai lettori? Passa dalle mani di Roberto e di tutti gli edicolanti d’Italia. Trentaduemila secondo i dati del Sinagi, il Sindacato Nazionale dei Giornalai (11mila in meno negli ultimi 7 anni), la maggior parte dei quali concentrati in Lombardia, Lazio ed Emilia Romagna. L’84% delle edicole sono imprese individuali, una su due è gestita da donne, il 4% da stranieri.
Roberto indossa sempre un paio di guanti macchiati dall’inchiostro fresco di stampa. Sistema i quotidiani, fa spazio al carico del mattino. Come ci aveva preannunciato, la distributrice più bella di Bologna ha portato il pacco con Il Resto del Carlino in orario ed è schizzata via su un furgone rosso. Lui si guarda le mani, da cui passano ogni giorno migliaia di parole, immagini e contenuti, in un breve gesto rituale e antico: «Ho un altro paio di guanti nuovi e puliti, ma mi piace usare questi».
C’è una poesia del lavoro in questo mestiere duro, dove ci si alza presto e si combatte il freddo e la crisi con un sorriso e minuti rubati al tempo frenetico degli altri.
Alle 6.20 entra Michele, il primo cliente. Sta andando ad aprire la tabaccheria che si trova dall’altra parte della strada. Prende il Carlino, 1 euro e 40 (conseguenza dell’ultimo aumento di gennaio) e non dice una parola. «Il tempo di permanenza medio in edicola va dai 15 ai 30 secondi, un minuto al massimo. Sta a noi fare in modo che, in questo arco di tempo, succeda qualcosa», dice Roberto.
Ha 48 anni, è un chitarrista e appassionato di rock, legge molto. Fino a sei anni fa lavorava in ufficio, faceva il programmatore informatico. Anche sua moglie, Barbara Moscattini, lavorava lì: Ad un certo punto abbiamo deciso che non ce la facevamo più. La routine era diventata insostenibile, abbiamo lasciato l’ufficio e abbiamo rilevato questa edicola dalla famiglia che la gestiva da anni. Solitamente ci diamo il cambio, io faccio la mattina e lei il pomeriggio. È faticoso, ma siamo contenti. L’arricchimento umano che ti dà questo lavoro è impagabile. L’edicola è uno spazio immaginario dove succedono delle cose, una finestra sul mondo e sulla cultura».
Roberto sa tutto quello che funziona e quello che non va, il suo rapporto con i lettori di quotidiani e riviste è un patrimonio di informazioni importantissimo sullo stato dell’editoria in Italia. Peccato che nessuno gli chieda mai niente: «Noi siamo quelli che giustificano le scelte di altri. Difendiamo i giornali per venderli, anche perché li abbiamo già pagati. Per questo li esponiamo così bene, in base all’articolo 170 della Costituzione siamo anche tenuti a rendere fruibili tutti i prodotti editoriali per garantire la libertà di informazione. Ma capirai che è un bell’esborso di denaro».
Ore 6.20. Arriva un altro distributore con il secondo giro di quotidiani. È un ragazzo sudamericano con l’auricolare del telefonino infilato nell’orecchio e una gran fretta: «Devo fare 14 edicole, faccio questo lavoro da poco e sto imparando. Quelli esperti ci mettono un’ora e mezza. Venerdì è il giorno peggiore». E la paga? «Per tutto il giro, 25 euro. È una catena, man mano che si scende si risparmia. E noi siamo gli ultimi». Salta sul furgone e riparte. Ecco quello che succede al giornale quando esce dallo stampatore: passa prima da un distributore nazionale e poi da uno locale (nel 2013 ne sono stati registrati 121), che lo fa arrivare in edicola appaltando il lavoro a cooperative di autisti o padroncini. «Un bel fiume di denaro», commenta Roberto.
È una delle lamentele del Sinagi, il Sindacato Nazionale dei Giornalai: “La diffusione della quasi totalità della stampa quotidiana e periodica”, si legge in un comunicato, “è demandata a distributori locali che operano in regime di monopolio. I distributori si sottraggono alle regole contenute nell’accordo nazionale di categoria, impongono ai rivenditori contratti di fornitura, sospendono a loro insindacabile giudizio la fornitura del prodotto, stabiliscono in completa autonomia quali e quante pubblicazioni portare alle edicole». «Vero», dice Roberto. «Il mese scorso prima di portarmi a casa l’unica copia di Rolling Stone rimasta ho aspettato il richiamo di resa da parte del distributore».
6.35. Arriva Marco, che deve aprire il bar. Suona il clacson e resta in macchina. «Si è fatto male alla schiena, glielo porto io il giornale», dice Roberto.
6.40. Entra un signore che tutte le mattine va in centro a piedi, da Ponticello alle Due Torri.
6.45. Un tipo grande e grosso compra quasi tutte le riviste di enigmistica: «Lavoro di notte, ho bisogno di qualcosa che mi faccia passare il tempo. Adesso vado a dormire. Buonanotte».
7.10. Tocca a un pensionato con la passione dei fumetti: «La vecchia guardia è imbattibile, Zagor è il mio preferito. E i testi di Ken Parker sono molto più belli di quelli di Tex».
7.15 «Buongiorno, signor Maio», «Trevisani, come va?».
Alle 8 spaccate passa un commercialista, poi un primario dell’ospedale, alle 8.30 arrivano tutti gli altri. Il custode dello stadio Gianni Falchi passa a chiacchierare e a bere un caffè, un ex commissario di gara di rally racconta aneddoti in dialetto bolognese, due anziani amici da una vita passano un po’ di tempo leggendo «il giornale bugiardo», una signora distinta, invece, di tempo sembra non averne, prende il suo quotidiano e se ne va con un sorriso tirato. «Una cosa te la devo dire», mi spiega poi Barbara, «quelli che comprano il Corriere della Sera sono proprio milanesi!».
Mi rendo conto che Roberto e Barbara conoscono tutti per nome. Il valore umano dell’edicola è questo, insieme all’inchiostro sui guanti.
Giuseppe Marchica, segretario nazionale del Sinagi ha lanciato l’allarme: «Due terzi delle edicole oggi guadagnano al netto meno di 1000 euro al mese». Roberto e Barbara non parlano del loro investimento e di quanto gli rende. La loro soddisfazione è stata diventare un punto di riferimento nella vita del quartiere. È un caso isolato, qui nella dolce e umanissima periferia bolognese, dove la gente si saluta quando si incontra? Forse, ma l’impressione è che chiunque scelga questo mestiere abbia una specie di missione. «Guadagno lordo dell’edicola? 18,77%. Sui prodotti non editoriali è il 24%. Per questo le edicole si stanno trasformando: possiamo vendere fino al prodotto alimentare incartato, l’ultima novità è la ricarica delle sigarette elettroniche. Qui a Bologna vanno forte i modellini di automobili, e naturalmente il robot da costruire, che si chiama “Robi”. L’ho esposto proprio qui dietro a me, così ogni volta che entra un amico legge cosa c’è scritto sulla scatola e mi prende in giro: “Uè, Robi! Costruisci il tuo androide!».
Sì, è proprio una missione. Anche perché, una volta sollevato il coperchio, saltano fuori tutte le contraddizioni del sistema: «Siamo l’unica categoria al mondo che si fa concorrenza da sola: io vendo una rivista che ha dentro una cartolina per sottoscrivere un abbonamento con il quale hai lo sconto del 50% e ricevi la rivista a casa senza dover più venire in edicola. Non è paradossale?». In effetti... «Ne vuoi un’altra? Come chiosco pago l’occupazione di suolo pubblico, ma anche l’IMU. Come mai?». Esiste un modo per risolvere tutte queste questioni? «Il contratto nazionale della nostra categoria è scaduto da tre anni», si limita a dire Roberto. «È da molto tempo che cerchiamo di parlare». Solo una cosa lo fa arrabbiare: «Gli ipermercati alzano i dati di resa in modo incredibile. Hanno cataste di giornali invenduti, mentre noi abbiamo a malapena le copie che ci richiedono i clienti. È evidente che l’importante per gli editori è essere presenti in un luogo dove c’è molta affluenza. Vendere non è importante, tanto i finanziamenti arrivano lo stesso. La nostra categoria ha richiesto da tempo la certificazione effettiva delle copie vendute e ha reso anche disponibile un software gestionale gratuito. Ma non è successo ancora niente».
E le edicole automatizzate della società svedese Meganews, in cui scegli la tua rivista, paghi con la carta di credito e te la stampi al momento? Roberto sorride: «Bella idea, davvero. Quanto ci mette a stampare la rivista? Due minuti? Ti pare che una persona alle 7 del mattino possa stare fermo in strada davanti a una macchina ad aspettare due minuti la sua rivista? E se in quel momento c’è qualcun altro? Si mette in coda? A mio giudizio è una cosa infattibile. Non siamo noi quelli che si devono rinnovare».
Sono le 10 del mattino. Roberto ha già fatto tre caffè. Il primo turno, quello più duro e dove fa più freddo, è finito. Gli altri momenti clou sono l’uscita da scuola per via delle figurine, poi i ragazzi che escono dall’allenamento di baseball, i pensionati, le mamme e quelli che “scendono” il cane. I giornali vengono continuamente spostati, sistemati e riposizionati in un ordine che rispetta al millimetro le preferenze dei clienti, i gusti dei lettori e in definitiva il futuro del settore. L’occhio cade sulla copertina, due parole, un commento, venduto. Dai 15 ai 30 secondi, un minuto al massimo, in cui Roberto si gioca tutto, difendendo i giornali scritti da altri: «A me piacerebbe che ci fosse un dialogo. Facciamo tutti parte dell’industria della cultura, sarebbe interessante poter dialogare con gli editori, con i distributori... Perché poi siamo noi che parliamo con i lettori», dice, sistemando lo scaffale delle riviste musicali. «Avete fatto bene a venire qui a vedere cosa succede al vostro giornale. Io quelli che comprano Rolling Stone li conosco tutti per nome. Sai cosa mi hanno detto? Vogliono vedere più band italiane, soprattutto emergenti. Questa è la sinergia giusta, la trasparenza che vogliamo. Noi siamo sempre qui Del resto, lo vedi come è fatta l’edicola? È di vetro. Si vede tutto, da dentro e da fuori».