Francesco Chignola, Tv Sorrisi e Canzoni 29/10/2013, 29 ottobre 2013
DIETRO LE QUINTE DI GAZEBO
Dietro gli spalti che ospitano il pubblico di «Affari tuoi» si nasconde uno dei programmi più divertenti e innovativi della tv. Nato a marzo come esperimento notturno della domenica, «Gazebo» è stato promosso a striscia quotidiana dal martedì al giovedì, in seconda serata su Raitre, con durate variabili.
A guidare la compagnia di «Gazebo» c’è Diego Bianchi in arte «Zoro», talento geniale nato sul web e lanciato da «Parla con me». Accanto a lui, i disegni poetici e spietati di Marco «Makkox» Dambrosio, gli stralunati sondaggi del tassista Mirko «Missouri 4», le opinioni del giornalista Marco Damilano e l’improvvisazione musicale di Roberto Angelini (chitarra) e Giovanni di Cosimo (tromba). Un gruppo affiatato che sta inventando un nuovo modo di fare satira in tv.
Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Zoro. Ecco cosa ci ha raccontato.
Come sono andate queste prime settimane della nuova annata di Gazebo?
«Sono andate bene, complessivamente. Stiamo cercando di mettere a punto la macchina, capire con quali criteri lavorare. Le puntate vengono realizzate in tempo reale, seguiamo l’attualità mentre si svolge cercando di starle attaccata e già nelle prime settimane abbiamo avuto a che fare con una crisi di governo, con il dramma di Lampedusa, con il funerale di Priebke ad Albano. Non ci siamo già fatti mancare emozioni forti e cose complicate da raccontare, soprattutto Lampedusa: andare in onda in diretta con il dramma ancora in evoluzione non era facile, ma ci abbiamo provato e siamo soddisfatti di essere riusciti a cambiare registro. La nostra ambizione non è solo far ridere ma anche raccontare gli eventi».
È difficile cambiare registro?
«Quando vai in onda una volta alla settimana, ci sono tante cose che puoi raccontare. Andando in onda tre volte alla settimana devi essere pronto ad affrontare ogni evenienza, compresi dei fatti clamorosi. Quando li raccontano tutti, poi, devi trovare un modo diverso dagli altri per raccontarli».
Saper chiudere la parentesi «comica» di un programma di fronte a un dramma, per l’Italia, è un approccio abbastanza nuovo. Molti scelgono di non andare in onda.
«Non voglio attribuirci troppi meriti, è vero che altri programmi non sarebbero andati in onda e forse, chissà, avremmo fatto bene. Ma noi abbiamo voluto provarci. È una cosa che avevo già fatto in passato, con il terremoto dell’Aquila: ci sono situazioni in cui scherzare è impossibile, ma cerco un altro modo di raccontare dei fatti. Anche l’approccio degli altri a Gazebo è lo stesso: Makkox con i suoi disegni all’occorrenza sa essere molto lirico e commovente. E poi c’è il tentativo di riportare tutto a un senso comune, come fa Mirko con i suoi sondaggi: sembrano una cosa strampalata ma sono spesso molto veritieri. Se stai in taxi tutto il giorno, sei a contatto con la gente ed è un termometro della situazione. E poi scandagliamo i social network, che sono una miniera per spunti, anche molto rivelatori, di quel che succede, del sentire comune, del modo di comunicare di politici e giornalisti».
Com’è cambiato il lavoro passando da una serata a tre alla settimana?
«Sei sempre al lavoro, fai solo quello e pensi solo a quello. L’anno scorso ogni tanto ci si poteva rilassare, andando in onda la domenica quello che succedeva il lunedì ormai era troppo lontano».
E poi ti capita di girare anche nel weekend, per la settimana successiva. In pratica, lavori sempre?
«Non ci si ferma mai. Nella puntata lunga del giovedì, dove c’è più spazio, si possono sfruttare anche delle cose girate il weekend precedente. Il lavoro è così: ci si trova, si leggono i giornali, si trovano gli spunti, che sono continui e spesso anche casuali. Devi avere anche un po’ di fortuna, altre cose devi andare a cercarle. Ma ti può capitare di trovarti materiale per una puntata che non pensavi di avere fino a un minuto prima».
Ora che sei più noto di qualche anno fa, senti di avere ancora il vantaggio di essere meno riconoscibile con le persone che intervisti?
«Se non sanno chi sei, possono non approcciarsi per nulla oppure ti considerano con grande tranquillità. Ora, sapendo più o meno dove finiscono i filmati, qual è il contenitore, alcune dinamiche cambiano. Fino a un certo punto, però: se qualche politico cerca di usarti facendo una performance te ne accorgi subito, e se sei bravo puoi girare la cosa a tuo favore e smontarlo. Quando incontri le persone, è più un vantaggio, hai l’occasione di parlare con tanta gente. Se c’è una fiducia nei tuoi confronti, la gente si apre di più, ti parla con più spontaneità. La maggior parte con me si comporta in modo sincero, fiduciosa nel fatto che io non storcerò quello che loro dicono. O almeno, non è mia intenzione».
Nelle prime settimane gli ascolti sono andati bene, soprattutto dopo «Ballarò». Un po’ meno dopo «The Newsroom».
«Abbiamo fatto due record: quello positivo e quello negativo».
Vi capita di tenere conto del «traino» quando costruite la trasmissione?
«Personalmente di queste cose capisco poco, anche se è ovvio che il giorno dopo guardi quanto hai fatto. Proprio come quando hai un post sul blog e controlli quanti commenti ti hanno lasciato, cosa pensa il tuo pubblico, per migliorarsi, per capire cosa non va. Detto questo, non facciamo mai dei contenuto in virtù del traino o della contro-programmazione. Facciamo la nostra puntata, cercando di avere contenuti forti, anche rischiosi, ma se ci credi lo fai. Il potere del traino non è colpa nostra, sta a chi fa i palinsesti capire quali sono le dinamiche. Quello che dobbiamo fare noi è un bel programma, sperando di fidelizzare sempre più persone. In quello stiamo pagando una fase di rodaggio del nostro pubblico, che deve capire che non siamo più di domenica ma siamo una striscia, e soprattutto capire quando comincia. Anche perché non si capisce mai bene quando comincia, e rischi sempre di perdere qualcosa».
Come influisce l’esperienza come blogger in questo lavoro?
«Ancora prima dei social network, il blog era uno strumento dove verificavi in tempo reale il gradimento di quello che facevi. Scrivevi una cosa, arrivava il commento che ti diceva se avevi fatto bene o meno».
Molti di voi autori della trasmissione venite dai blog o dal web, avete una differenza di approccio nei confronti del pubblico.
«Noi siamo tutti nati in rete professionalmente, anche non abbiamo più vent’anni, e quindi siamo abituati ad avere un feedback immediato. C’è tutta una generazione di conduttori e persone che stanno in televisione che, al massimo, avevano l’Auditel e qualche recensione sul giornale, o quello che ti incontra per strada. Ormai invece è così per tutti programmi».
Diciamo che siete vaccinati.
«Esatto. Poi tutto va commisurato, a volte mi fanno sorridere i programmi che si vantano di essere primi in classifica con il loro hashtag, come se fosse un risultato devastante. La rete è spesso una lente un po’ fuorviante».
A volte i record su Twitter riguardano poche migliaia di persone, in trasmissioni che fanno ascolti di milioni di spettatori.
«Non possiamo negare che ci faccia piacere avere un grande successo su Twitter. Però ecco, non ci esaltiamo se uno dei nostri hashtag ha raggiunto il primo posto. Ci fa anche un po’ ridere, però siamo contenti perché significa che quella singola idea ha fatto breccia in un determinato tipo di pubblico. Giochiamo con questa cosa per tutta la puntata, anche con hashtag che non hanno senso, che seguono i servizi».
È sicuramente uno dei programmi che ci gioca in modo più intelligente.
«Uno cerca di usare tutti gli strumenti che ha a disposizione, poi qualche volta l’azzecca e qualche volta no. È lo stesso anche per la musica, che per Gazebo è importantissima».
Anche quelle sono scelte frutto di lunghe discussioni, giusto?
«Secondo me è una di quelle cose che ci rendono diversi da altri programmi. Roberto Angelini e Giovanni Di Cosimo. suonano dal vivo, improvvisano dal vivo, non sanno mai quello che sta per succedere nella puntata, quindi commentano al volo cose che non conoscono ancora».
Questo vale per tutti?
«Io non ho un gobbo da leggere quando vado in puntata. Mirko si scrive delle cose sul quadernone di Paperino e poi parte. Io stesso non so mai quello che Mirko sta per dire, quando vado a sedermi con lui. Se lo sapessi prima, mi brucerei in camerino la mia prima reazione: davanti alla telecamera non riesco a recitare lo stupore e la recitazione. Non dico che siamo dei fenomeni: a volte funziona e altre no. È sempre un rischio, ma alla fine paga».
Restituisce un senso di spontaneità.
«Sì, vale tutto. Ed è importante il gioco di squadra».
Quindi è quasi tutto improvvisato?
«Nella puntata, quasi tutto. Cioè, c’è una scaletta. C’è un foglio, appoggiato su una cassa, dove ci sono scritte le cose che succederanno. Ma saranno cinque frasi per puntata».
Ma vi tenete la possibilità di bruciarla.
«Più che altro c’è la possibilità che io mi scordi delle cose e le cambi senza volerlo, è successo anche questo».
Tutto questo in un periodo in cui la diretta pura è in fase di decadenza.
«Da noi, se casca un cameraman o io dico una stronzata, te ne accorgi subito».
Siete comunque piuttosto atipici rispetto alla Rai della prima serata.
«Una cosa è certa, se ci mettessero alle nove di sera faremmo sempre la stessa cosa, ci comporteremmo nello stesso modo. È questo quello che sappiamo fare, forse è un pregio, può essere anche un limite».
Gazebo potrebbe mai uscire dalla seconda serata? Magari in preserale?
«Ci sono i programmi che, messi in un determinato contesto, creano quella particolare comunità, si citano sempre i programmi di Arbore o “Avanzi” o “Parla con me”. Ed è valso anche per noi, soprattutto l’anno scorso quando partivamo a mezzanotte. Al tempo stesso, però, per me al centro ci deve essere sempre il contenuto di quello che fai. Quando sono passato con i miei video da YouTube a Raitre, cioè da trentamila persone in un mese a un milione in cinque minuti, non ho cambiato il video. Il contenuto dev’essere sempre lo stesso perché io credo in quel contenuto, perché vale e perché è forte. Quindi, se anche finissimo all’ora di cena, l’importante sarebbe essere competitivi facendo le stesse cose che faremmo di notte. E magari ci vedrebbe e gradirebbe anche un altro tipo di pubblico, quello che va a dormire presto».
Nella storia di Gazebo, qual è il servizio di cui sei più orgoglioso?
«Lo scorso anno, il nostro cavallo di battaglia è stato quando siamo andati a Tragliata, appresso a Beppe Grillo. Mirko si è messo il giubbetto di Grillo e tutti gli sono andati incontro. Il corto circuito con il circo mediatico lì aveva raggiunto l’apice. L’acquisto di questo giubbetto è stata l’unica spesa extra di Gazebo. Dissi: andiamoci e portiamolo, qualcosa ci faremo. Pensavo di indossarlo io, invece lo misi addosso a Mirko e ripresi tutto. Un capolavoro. Ci abbiamo anche aperto il Tg1».
E quello che è stato più impegnativo a livello emotivo?
«Sono molto orgoglioso di quello che abbiamo fatto su Lampedusa. Noi siamo percepiti come un programma di intrattenimento, cosa che siamo, ma vorremmo essere anche un programma di informazione, di racconto a modo nostro, anche di fronte a una tragedia del genere. È una sfida che ci è capitata subito, alla terza puntata, abbiamo cambiato la scaletta durante il pomeriggio. L’anno scorso, invece, l’elezione del Presidente della Repubblica, che abbiamo raccontato e vissuto in tempo reale, e la sparatoria durante il giuramento dei ministri».
C’è un servizio che non sei riuscito a realizzare?
«Ce ne saranno stati tantissimi. Quest’anno non sono riuscito ad andare personalmente a Lampedusa, sentivo di dover andare là, ma non c’era un aereo che mi avrebbe riportato in tempo a Roma per fare la trasmissione. Tutto non si può fare. Quest’anno cerchiamo di coprire anche con l’aiuto di altri videomaker, per seguire anche eventi che avvengono in contemporanea».
Secondo te, com’è lo stato di salute della politica e della satira in tv?
«Non ti saprei dire bene perché non so nemmeno cosa sia, oggi, la satira in tv. È un concetto soggettivo: magari per me è satira qualcosa che per te è una cosa diversa. Ci sono dei momenti di talk show che sembrano satira senza volerlo. Secondo me al momento siamo davanti a un eccesso di racconto: ogni volta che c’è un evento, a raccontarlo siamo dieci in più della volta precedente. Riuscire a differenziarsi qualitativamente è sempre più difficile e non tutti lo fanno. Non vale per tutti, non voglio generalizzare, però è vero che a volte, saltando da un programma all’altro, ti sembra di vedere sempre lo stesso. E che seguire l’attualità a velocità mostruose ti porta a dimenticare le cose che il giorno prima sembravano così importanti. Pensa a Lampedusa: al secondo barcone, nessuno ne discuteva più. È successo il giovedì, e il lunedì già si parlava di tutt’altro. Questo è un problema che, girando spesso, mi trovo ad affrontare. Purtroppo non ho una ricetta».