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 2014  febbraio 28 Venerdì calendario

LE RELAZIONI PERICOLOSE


Nelle ore notturne del voto di fiducia al Senato, nei corridoi ormai deserti, spetta al ministro Maurizio Lupi la definizione più maliziosa della nuova era: «Il governo Renzi? È un governo Berlusconi, ma senza Gianni Letta. Silvio ha sempre sognato di fare il discorso programmatico di Matteo: eliminare i senatori, cacciare i dirigenti pubblici... poi arrivava Gianni Letta, gli suggeriva che queste cose non si potevano dire, zac, tagliava tutto e aggiungeva pagine e pagine sull’ambiente, i giovani, gli anziani...». È la sera di lunedì 24 febbraio, a Palazzo Madama, le parti si sono rovesciate. I senatori del Pd, in teoria il partito di cui il neo-premier è anche segretario, trattengono a stento la loro ira per la «maleducazione istituzionale» del loro leader. Per molti di loro era la prima volta, non avevano mai sentito il segretario-premier dal vivo, non hanno frequentato la Leopolda. Mario Tronti, il filosofo di Potere Operaio, ha le mani che vibrano di stupore sul banco, l’ex sindaco di Brescia Paolo Corsini scuote la testa: «Un comizio da piazza». Quelli di Forza Italia, invece, mascherano appena l’entusiasmo. «Comunicazione perfetta, tagliata alla perfezione sul personaggio», lo celebra Paolo Bonaiuti, uno che se ne intende. E quando finalmente tutti se ne sono andati Renzi incontra il sostenitore più caloroso di tutti, il braccio operativo di Forza Italia Denis Verdini, toscano come lui: una stretta di mano, un buffetto sul viso. E in questa giravolta di compagni di partito che non ci sono e di nemici fin troppi avvolgenti che c’è la chiave del difficile inizio del governo Renzi. Alleati scettici, innesti ministeriali improvvisati, conflitti di interessi in quantità. Le relazioni pericolose che avvolgono il nuovo inquilino di Palazzo Chigi, desiderose di condizionare, imbrigliare, logorare, come si è sempre fatto. Un groviglio tutt’altro che armonioso, una limacciosa, immobile palude.
L’amicizia più pericolosa, come da copione nei riti della politica italiana, è l’alleato numero uno di governo, il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Il leader di Ncd ha difeso le sue tre poltrone ministeriali e si prepara ad affrontare una battaglia interna in un partito che ancora non c’è. Il candidato alla segreteria, l’ex ministro Gaetano Quagliariello, rimasto escluso dal governo con la promessa di un ruolo-guida nell’Ncd, è ostacolato dall’ispiratore di ogni mossa di Angelino, l’ex presidente del Senato Renato Schifani. Il notabile siciliano vorrebbe bloccare Quagliariello e mantenere una guida collegiale dei fondatori dove poter contare indisturbato. Per il governo Renzi è un problema: un Ncd diviso e costretto a fare la faccia feroce per dimostrare la sua esistenza in vita potrebbe ostacolare le leggi sui diritti civili e sull’immigrazione, su cui per ora il programma di governo è a dir poco generico, e anche la riforma elettorale, la polizza sulla vita di Renzi: senza la possibilità di tornare al voto non c’è minaccia che impaurisca gli abitanti del Palazzo romano decisi a resistere contro l’urgenza del nuovo del Bimbaccio venuto da Firenze.
Dalla parte opposta c’è il fronte berlusconiano, alleato numero uno di Renzi in quella che ormai tutti chiamano la seconda maggioranza, per distinguerla da quella di governo di cui Forza Italia formalmente non fa parte. La seconda maggioranza è fondamentale per Renzi per fare la riforma elettorale, senza Berlusconi diventano potenzialmente letali i voti segreti alla Camera e i numeri risicati al Senato. Ma il rapporto con il Cavaliere condannato ha un prezzo, diventato visibile nella formazione del nuovo governo, quando il premier al Quirinale ha letto il nome di Federica Guidi come ministro dello Sviluppo economico, la new entry più sorprendente. Non è un mistero per nessuno che il cuore della Guidi batta per Arcore. Un anno fa, di questi tempi, era sicura una sua candidatura alla Camera nelle liste del Pdl, a darne la notizia era stato il bolognese "Resto del Carlino" che della famiglia Guidi raccoglie e rilancia ogni sospiro. «Il tridente rosa del Pdl: Bernini, Guidi e Brambilla», titolava l’8 gennaio 2013. «Ho detto di no perché non volevo scendere in politica e perché il mio bambino era piccolissimo», puntulizza ora il ministro. «E non dico per chi ho votato alle ultime elezioni». La scena si è ripetuta una settimana fa, una cena con Berlusconi per candidare la Guidi alle elezioni europee nelle liste di Forza Italia. Lei ha negato di essere andata ad Arcore, ma di certo è stato invitato il padre Guidalberto, ex vice-presidente di Confindustria, un falco che negli ultimi due anni non ha mai nascosto il suo pensiero: «Nessuna azienda sana di mente oggi investirebbe nel nostro Paese. Per altri quattro o cinque anni continueremo a perdere posti di lavoro e a registrare la chiusura di aziende». Meno male che Renzi intende aprire una nuova stagione di ottimismo. «L’Italia deve smettere di essere il Paese in cui ti ripetono "vai all’estero finché sei in tempo"», ha detto il premier nella replica al Senato. Difficile farlo, però, con un ministro al vertice di un’azienda, la Ducati, che fuori dai confini nazionali ha portato tutto, o quasi: produzione delocalizzata, ottocento dipendenti dislocati tra Romania, Croazia, India, Argentina, 140 milioni di euro di fatturato con l’87 per cento di export. In più, conflitti di interessi per le commesse pubbliche legate alla produzione, dalle Poste a Enel a Ferrovie. Come se non bastasse, dal ministero della Guidi dipende anche il settore delle telecomunicazioni, l’affetto più caro dell’amico Silvio.
La seconda scelta sorprendente di Renzi è il ministro del Lavoro, l’omone della Lega Coop, il massiccio Giuliano Poletti, faccia da comunista emiliano, iscritto al Pci di Imola fin dalla tenera età. Una sorpresa solo per chi non conosce il rapporto stretto che si è stabilito negli ultimi mesi tra l’ex sindaco di Firenze e l’ex presidente delle Coop: «Sarà un protagonista del futuro di questo Paese», aveva sentenziato Poletti quando Renzi neppure era stato eletto segretario e i compagni del Pd facevano di tutto per rimandare le primarie. È ottimo amico di Oscar Farinetti, l’inventore di Eataly, il profeta del renzismo nella scalata dalla Leopolda al governo, socio di tre grandi coop che operano nella distribuzione alimentare. Poletti ha pilotato le coop dopo il caso Unipol, ha teorizzato l’autonomia dalla politica («I partiti? No, grazie, ci rappresentiamo da soli») e dal sindacato rosso, la Cgil: «I valori sono gli stessi, ma noi facciamo impresa, siamo cugini della Confindustria e controparti della Cgil». Il nuovo ministro del Lavoro è uomo che di larghe intese se ne intende: ha messo d’accordo le coop rosse, quelle bianche della Confcooperative e quelle verdi (ex repubblicane) dell’Agci, unite nell’Alleanza delle cooperative italiane, 43mila imprese associate, oltre un milione e 100mila occupati, 120 miliardi di fatturato. E ha stretto un patto d’azione con la Compagnia delle Opere e Comunione e liberazione, politicamente schierate sul versante opposto. Non solo i pensosi convegni di Imola sul «bene comune, terreno di incontro tra tradizione cattolica e filone socialista», lo stesso che piace tanto a Pier Luigi Bersani, ma anche Obiettivo Lavoro, oggi società per azioni, nato nel lontano 1997 per far incontrare domanda e offerta di lavoro. E altri corposi interessi comuni, dall’Expo 2015 all’ospedale Niguarda di Milano. In perfetta sintonia con il ministro Lupi, il garante del blocco ciellino nel governo, fondatore del gruppo interparlamentare sulla sussidiarietà già nel 2003, l’anno in cui Poletti fece il suo debutto sul palcoscenico del meeting di Rimini, da cui si rendono visibili le nuove alleanze.
Infine, per Renzi c’è l’amicizia più difficile da gestire, più che altro una disamistade, un’inimicizia, una faida continua, appena sopita ma pronta a riesplodere: quella con il partito che dirige, il Pd, con i gruppi parlamentari che non lo amano, anzi, lo temono. L’applausometro dei giorni della fiducia è stato impietoso: tiepidi battimani per il premier al Senato e alla Camera, e tre standing ovation per l’ex segretario Bersani, tornato in perfetta forma dopo l’intervento chirurgico. La più forte di tutte quando Bersani ha abbracciato il predecessore di Renzi a Palazzo Chigi Enrico Letta. Una coppia che lavora insieme da più di un decennio, dai distretti industriali al potere nel Pd e nel governo, entrambi travolti dal ciclone Renzi ma pronti alla rivincita. Due potenziali leader del dissenso interno che si è dato un obiettivo, strappare a Renzi la segreteria del Pd, chiudere con il doppio incarico e ottenere che a largo del Nazareno ci sia un leader a tempo pieno. Una minaccia per Renzi, che non dimentica come nel 1998 la staffetta alla guida della Quercia tra Massimo D’Alema e Walter Veltroni indebolì precocemente il primo governo guidato da un post-comunista. E se non lo avesse capito da solo il nuovo premier potrebbe farselo raccontare direttamente dal protagonista. Con D’Alema nei giorni della crisi si è riaperto un canale di collegamento. L’ex leader Ds spingeva per la riconferma di Massimo Bray al ministero della Cultura ed è rimasto deluso, ma in compenso ha incassato la nomina più importante, Pier Carlo Padoan al ministero dell’Economia. Padoan è stato il suo consigliere economico a Palazzo Chigi e poi direttore della fondazione Italianieuropei. Per i renziani duri e puri tanto bastava per tenerlo fuori dal governo, ma le pressioni del Quirinale hanno avuto la meglio sulle resistenze del premier. D’Alema fa ora circolare che la nomina di Padoan è anche merito suo, una ostentazione quantomeno esagerata. Ma anche di D’Alema Renzi ha bisogno per tranquillizzare le acque agitate del Pd, in vista delle elezioni europee e delle nomine per la commissione Ue, il terzo lato di un triangolo con Berlusconi e Renzi che vede come posta in gioco la rapida approvazione della legge elettorale e il voto. «Il patto Berlusconi-Renzi si fonda su tre punti non revocabili», dice un osservatore acuto e informato della politica, il vecchio socialista Rino Formica, il primo a parlare della rielezione di Napolitano. «Una legge elettorale che garantisca il Pd e Forza Italia. Elezioni politiche entro un anno. E un’intesa per l’elezione del presidente della Repubblica che si prevede in tempo ravvicinato». Nessuno vuole restare escluso.