Antonio Spadaro, Corriere della Sera 28/2/2014, 28 febbraio 2014
«IL MIO MAESTRILLO BERGOGLIO CI AIUTÒ A SUONARE I BEATLES»
Sul numero di domani della rivista dei gesuiti «La Civiltà Cattolica» uscirà un’intervista realizzata dal direttore del periodico, il gesuita padre Antonio Spadaro, a Jorge Milia, che negli anni Sessanta al «Colegio de la Inmaculada Concepción» di Santa Fe, in Argentina, fu allievo dell’allora ventottenne Jorge Mario Bergoglio, giovane docente di Letteratura. In questo ampio stralcio dell’intervista, i racconti del Bergoglio insegnante, l’incontro con Borges e l’amore del futuro Papa per le lettere.
Rileggendo l’intervista che papa Francesco ha concesso alla Civiltà Cattolica lo scorso settembre, emerge chiaramente l’importanza che Bergoglio attribuisce alla creatività. Durante la nostra conversazione ero rimasto molto colpito dalle sue letture, dalla sua passione per la musica e per il cinema. Avevo seguito le sue citazioni, rendendomi conto che per lui non esiste un campo «estetico» separato dalla sua vita ordinaria e dal suo impegno pastorale. I protagonisti di un romanzo, ad esempio, per lui sono parte di un vissuto al quale fa riferimento in maniera naturale e spontanea, in genere implicita.
Parlando di questi argomenti, il Papa ha ricordato un’esperienza peculiare da lui vissuta quando, tra il 1964 e il 1965, a 28 anni, fu professore di Letteratura a Santa Fe presso il Colegio de la Inmaculada Concepción, una scuola di gesuiti attiva da oltre quattrocento anni. Bergoglio insegnava agli ultimi due anni del Liceo e avviò i suoi ragazzi alla scrittura creativa. Così ho chiesto a Jorge Milia, nato a Santa Fe nel ‘49, scrittore, poeta e giornalista, alunno dell’allora professor Bergoglio — il maestrillo , come si chiamano i gesuiti in formazione — di tornare col ricordo a quegli «anni felici», come lui li ha definiti.
Jorge, insomma, tu e i tuoi compagni di scuola tra i quindici e i diciassette anni scrivevate storie, racconti e poesie, leggendo Borges e altri autori. Puoi parlarcene? Che ruolo ha avuto il professor Jorge Mario Bergoglio in quell’attività?
«Bergoglio ama lanciare sfide. E noi eravamo un gruppo di adolescenti ribelli, in piena tempesta ormonale, golosi e assetati di novità. La prima sfida che ci lanciò fu quella di confrontarci con una letteratura spagnola che portava tutto il peso romanico dello spagnolo antico. Il Mester de Juglaría e il Mester de Clerecía — cioè i generi poetici dei poeti popolari e dei chierici medievali spagnoli —, Gonzalo de Berceo e il “Poema del mio Cid” ci apparivano molto più grandi e pesanti di quei mulini a vento in cui l’hidalgo de la Mancha scorgeva giganti. Insomma: non avevamo voglia di studiare. E Bergoglio ci spianava la strada per incoraggiarci a percorrerla. Per esempio, sostituì un passo del Mio Cid, che parla dell’ingresso a Burgos, con “Castilla” di Manuel Machado, una poesia che ci commosse tutti, al punto che cinquant’anni dopo molti di noi la ricordano ancora per intero».
E la scrittura creativa? C’è un nesso con Borges?
«Bergoglio ci spinse alla scrittura creativa. Io fui uno degli otto coautori dei “Cuentos originales”, un volume edito al termine di un concorso letterario rivolto agli alunni del Collegio, promosso nel 1965 da Bergoglio insieme a Jorge Luis Borges, che firmò la Prefazione. In quell’anno abbiamo avuto la fortuna di conoscere Borges, che con noi era disteso, divertito. Non mancarono gaffes ed episodi esilaranti».
Ma parlami di com’era la relazione quotidiana tra gli alunni, il professore e la letteratura. Che cosa accadeva al suono della campanella?
«Era una relazione attiva di coinvolgimento, di passione. Spesso era proprio Bergoglio a provare una sensazione di meraviglia nello scoprire l’immagine nascosta in un passaggio del testo, in una frase o anche soltanto in una parola che uno di noi gli presentava. Ecco, era capace di trasmettere quelle esperienze agli altri. Non si comportava con i modi tipici di un maestro che dirige e detta tracce da seguire, quanto facendoci partecipare, dando ovviamente consigli e spiegazioni. Se qualcuno esprimeva interesse ad approfondire un argomento o un’opera, non soltanto lo consentiva, ma si offriva di dargli una mano. Era evidente che lui dava stima e sostegno a chi si avventurava su percorsi personali di approfondimento».
Quali erano i suoi autori preferiti e quelli che, al contrario, non amava?
«Indubbiamente e per molte ragioni, a quell’epoca ha avuto un ruolo primario la lettura di Borges. Tuttavia ha amato anche Leopoldo Marechal e tanti altri autori argentini. Inoltre sono certo che avesse confidenza con molta letteratura italiana: non soltanto i classici. La poesia lo ha sempre attratto molto, e la sua capacità di leggere in italiano e in tedesco gli offriva un panorama interessante».
Bergoglio si dedicava soltanto all’insegnamento della letteratura?
«No, la sua azione ha avuto molto a che vedere con la riapertura della biblioteca del Collegio e con il mondo del teatro nell’Istituto. La rappresentazione di varie opere è sempre stata un’attività rilevante dell’“Immacolata”. Nel 1964 si progettava di proporre Tabaré per rendere omaggio a Juan Zorrilla de San Martín, un poeta uruguaiano. Quella sua opera è un poema epico ambientato nell’aspra guerra tra spagnoli e charrúas in territorio uruguaiano alla fine del XVI secolo. In quel contesto si svolge l’idillio tra l’indio Tabaré e la spagnola Blanca. Manuel De Mozos, un attore spagnolo approdato al Collegio, si dava da fare per mettere in scena quell’opera, vantata come un gioiello della letteratura uruguaiana, ma aveva problemi di ruoli. Gli alunni del Collegio erano tutti maschi e l’opera richiedeva la presenza di personaggi femminili. Come unica soluzione possibile lo spagnolo propose di travestire da donna due o tre attori. Jorge Bergoglio, che si era appena assunto la responsabilità della rappresentazione, gli oppose un netto rifiuto. È stato il primo ad ammettere donne nelle produzioni dell’Accademia di teatro del Collegio. Fino ad allora si erano scelte opere senza personaggi femminili (a costo di alterarle o mutilarle) o, ancor peggio, alcuni personaggi femminili erano stati rappresentati da uomini, compagni di corso. Bergoglio pose risolutamente la questione in questi termini: ne andava a detrimento l’immagine della donna. Un’affermazione che mi sembra avere un riflesso oggi nella sua posizione sull’importanza della donna nella Chiesa e nella società. Si mise subito a chiedere di madri e sorelle dei vari attori, e in poco tempo riuscì a inscenare l’opera con molto successo, con la necessaria presenza femminile».
E la musica? Ho saputo che Bergoglio si era occupato anche della musica dei suoi ragazzi. Hai qualche ricordo personale?
«La nostra era l’epoca dei Beatles: John, Paul, George e Ringo. Tutti noi giovani degli anni Sessanta volevamo essere Beatles, anche se non sapevamo suonare nemmeno il campanello. Alcuni però ci sapevano fare... E, in quel caso, perché l’“Immacolata” non avrebbe dovuto vantare degli emuli dei capelloni di Liverpool? Con tutta la passione degli anni Sessanta, Marcelo Delgado e Jorge Triay volevano creare un complesso sul modello dei Beatles. Ma quanto immaginavano quei due studenti che sfruttavano l’ora di ginnastica per scambiarsi idee, era difficile da realizzare. Non avevano gli strumenti. Mancava una batteria e, al posto di chitarre e bassi elettrici, avevano guitarras criollas , chitarre acustiche. Per fare un gruppo scarseggiavano componenti. E mancavano perfino i testi delle canzoni. Era difficile fare un quartetto con due persone. Non avevano nemmeno un posto dove provare. Insomma, mancava più di quanto avevano, sicché, come spesso capitava quando c’erano problemi da risolvere, decisero di andare a trovare Jorge Mario Bergoglio, che li ascoltò con interesse. Garantì loro soltanto che, per ottenere quel che volevano, avrebbero dovuto faticare. Poco tempo dopo si aggiunsero Ubaldo Pérez Paoli e José Cibils, e il quartetto fu composto. L’aiuto del maestrillo si dimostrò valido, e presto giunsero risultati: un’aula per le prove e un impianto audio, e l’inserimento di un alunno interno, Martín Murphy, che s’incaricasse dei testi delle canzoni. L’appoggio di Bergoglio si fece abituale. Era una costante in lui: non respingeva mai una richiesta di aiuto e, se vedeva che le persone s’impegnavano, lavoravano al progetto, continuava a sostenerle. Per Bergoglio e per il Collegio, l’appoggio a The Shouters («Gli urlatori») non si limitava nel fornire loro l’uso di uno spazio disponibile, ma mirava oltre, a sostenerli in un progetto collettivo che in qualche modo avrebbe avuto ripercussioni nelle loro vite».