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 2014  febbraio 28 Venerdì calendario

L’ECOMOSTRO SUL LAGO DI GARDA E IL MIRACOLO DEI SOTTERRANEI EMERSI


Scommettiamo che se ripassasse oggi, Albrecht Dürer, non si fermerebbe più a dipingere incantato il fascinoso castello di Arco, sul lago di Garda. I ruderi del maniero, sia chiaro, hanno conservato il loro charme. Ai suoi piedi, però, dove ai tempi del grande pittore tedesco c’erano solo ulivi e un secolo fa sorgeva un delizioso albergo ottocentesco, è venuto su un ecomostro. Una gigantesca spalmata di cemento armato dalle curiose caratteristiche: i «sotterranei» emergono da terra come un muraglione. Direte: ma un sotterraneo non si chiama sotterraneo perché sta sotto la terra? Miracolo urbanistico: qui no.
La storia va raccontata dall’inizio. Cioè da quando, agli sgoccioli dell’Ottocento, il caffettiere Giuseppe Lenninger, gestore del «Caffè Restaurant Villa Emilie» rivolge una richiesta al comune: «È intenzione dell’umile sottoscritto di fare erigere nel suo podere coltivato a ulivi, posto sopra la villa arciducale (…) un piccolo casino alla Svizzera come da disegno che qui si unisce e supplica perché esso sia approvato in linea estetica. Questo piccolo fabbricato consistente in due soli locali uno sopra l’altro…».
Ma si sa, l’appetito vien mangiando. E così, dopo aver avuto il via libera per il delizioso «piccolo casino» in quel punto panoramico che spaziava sul lago, il caffettiere, avendo intuito come Arco sarebbe diventato un centro turistico amatissimo dai tedeschi, decise di ingrandirsi. E meno di un anno dopo chiedeva di dichiarare abitabile l’edificio, nel frattempo diventato tutta un’altra cosa: un elegante albergo battezzato «Villa Olivenheim», casa degli ulivi. Era il 1888.
Da allora lo stabile, del quale resta una bella cartolina, ha avuto vita travagliata. Abbandonato dopo la Grande Guerra dagli affezionati villeggianti austriaci, germanici e ungheresi a causa del nuovo confine, fu infine comprato dall’Opera nazionale invalidi per farci un sanatorio per i «ricoverati tubercolotici di guerra» con i soldi forniti in buona parte, per spirito di fratellanza, con le rimesse degli emigrati in Argentina. E quello fu l’ultimo nome che prese: «Casa Argentina». Destinata via via ad esser abbandonata al degrado finché una ventina di anni fa fu ceduta dalla Provincia a nuovi proprietari. Il tempo di mettere a punto un progetto e questi chiedono di ricostruire l’edificio. No, risponde il Comune. E accusa il progetto di aver giocato in contrasto con la legge sul «volume esistente calcolato comprendendo volumi interrati e seminterrati». La proprietà fa ricorso al Tar. Respinto.
Nel 2000 il piano regolatore cambia. Ma prevede comunque per l’ex «Argentina», dato «l’alto valore paesaggistico derivante dalla posizione strategica e panoramica dell’area» dei limiti molto rigidi, una pianta d’alto fusto ogni 50 metri quadri, una «impronta architettonica qualitativamente elevata tale da richiamare lo stile tardo ottocentesco», un’altezza massima di 10 metri e mezzo… A farla corta: il rifacimento, visto il posto, deve essere garbato. Rispettoso.
Nel 2003, nuova variante. Assai più permissiva. Anche questa, tuttavia, specifica vari punti: «le volumetrie del progetto dovranno tendere a contenere al massimo l’impatto paesaggistico e l’intrusione nelle vedute panoramiche del castello» e seguire «il più possibile le curve di livello del terreno naturale» e «l’altezza dei fabbricati sarà quella che meglio concilia le esigenze di mitigare l’impatto visivo» e insomma il tutto «dovrà essere oggetto di analisi filologica e tendere al recupero, nel possibile, della sua immagine originaria, ripristinando i fronti principali e gli apparati decorativi dell’epoca». Quali? Lo dicono le foto conservate dagli ambientalisti che combattono la pesante ristrutturazione cementizia: le colonnine, l’abbaino, le finestre ad arco, i pinnacoli…
Fatto sta che due giorni dopo il Natale del 2004, mentre la gente smaltisce distratta i postumi dei cenoni ed è avviata la cosiddetta «fase informale», l’assessore all’urbanistica Sergio Dellanna consiglia alla proprietà come motivare «la richiesta di demolire il fabbricato storico» e cioè sottolineando il degrado e lo «sfiguramento» dell’edificio, i problemi di ripristino dell’originale, l’indisponibilità di parcheggi… Poco dopo il Comune, per bocca di altri assessori, dice d’essersi convinto dell’«impossibile ipotesi di convivenza tra il recupero filologico del manufatto e la necessità di mitigare l’impatto prodotto dagli spazi destinati a parcheggio mediante il loro interramento». Arrivano le ruspe. Tutto giù.
Cosa sia adesso quello che un tempo era l’elegante «Hotel Pensione Olivenheim» lo potete vedere dalle fotografie. Quella satellitare dell’area «prima» e «dopo» mostra un incremento delle cubature originali (a proposito: nessuno ha mai ben capito a quanto ammontassero) molto ma molto vistoso. Quelle della facciata ostentano una colossale parete di cemento armato, una specie di imponente zoccolo, in cima alla quale è adagiata la struttura residenziale vera e propria con le finestre che, lassù in alto, hanno finalmente la vista sul lago che altrimenti, senza l’innalzamento di quell’«interrato», sarebbe stato invisibile.
Cosa dicono le norme comunali? Dicono che può essere definita interrata una «costruzione collocata totalmente sotto il livello del terreno o sotto il terreno di riporto preventivamente autorizzato che non presenta più di una faccia scoperta». Ma possono essere considerati «interrati» quei parcheggi scavati nella montagna dietro quel muraglione che nel punto più alto svetta sulla strada per 10 metri? E che fine ha fatto il «recupero filologico» se là dove c’era il vecchio albergo poi sanatorio c’è oggi uno spropositato complesso di vari palazzi squadrati, anonimi e biancastri di cemento?
E non è finita. Accanto alla «Residenza Olivenheim» che all’albergo originale ha rubato anche quel nome che suona così romantico e bell’époque e che sarà venduto appartamento per appartamento (auguri: centinaia di case nella zona sono invendute) dovrebbe essere «recuperato» allo stesso modo anche un altro edificio bello ma malandato dove dovrebbe sorgere un hotel. E pazienza se quella strada si chiama Via del Calvario. Un tempo, quando quella collina era davvero bellissima, col castello che si stagliava così vicino che pareva di poterlo toccare, saliva tra gli ulivi silenziosi una struggente «via crucis». C’era un capitello, lì, all’inizio. Da tempo immemorabile. Dava fastidio. L’hanno tolto.