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 2014  febbraio 28 Venerdì calendario

SLALOM TRA BUCHE, SPRECHI E IRPEF ESAGERATA MA UN AVVOCATO COSTA 300 MILA EURO


Scena: Giorgio Napolitano e sua moglie Clio arrivano per assistere alla prima della Manon Lescaut diretta da Riccardo Muti, ma la porta del Teatro dell’Opera è sbarrata. Ci hanno appeso un cartello dove c’è scritto a penna: «Chiuso per sciopero. Il maestro Muti, direttore onorario a vita, è ripartito nel pomeriggio e non tornerà». Ieri sera a Roma poteva accadere questo, se il sindaco Ignazio Marino non avesse battuto i pugni sul tavolo minacciando addirittura la liquidazione dell’ente che negli ultimi tre anni ha perso 25,7 milioni. Un centinaio di dipendenti su 485, contrari alla legge sugli enti lirici che impone il pareggio dei bilanci, volevano far saltare lo spettacolo per protesta. Con seguito inevitabile di una raffica di incidenti diplomatici e figuracce planetarie.
Storia emblematica di una città con i nervi a fior di pelle, dove è netta la sensazione che la situazione stia sfuggendo al controllo. E non è certo per la perfidia degli ostruzionisti che hanno fatto saltare in Parlamento il decreto salva Roma.
Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: Marino ha ereditato una situazione che definire complessa è un eufemismo. Come consente facilmente di appurare una navigazione nel sito ufficiale del Comune. Lì si trova, per dirne una, l’elenco degli avvocati alle dipendenze dell’amministrazione. Sono 23: ma la cosa sorprendente non è tanto il numero, quanto le retribuzioni. Si va da un minimo di 262.338 euro per Andrea Camarda o Umberto Garofoli a un massimo di 321.011 euro per Andrea Manganelli. Totale per i 23, sei milioni 648.552 euro nel 2012. Questo perché tutti loro, oltre allo stipendio, hanno diritto a intascare una congrua percentuale sugli onorari per le cause vinte. E il bonus, che in qualche caso sfiora i 200 mila euro, non è mai sotto 160 mila euro. Si dirà che succede anche altrove, per esempio all’Inps che ha un esercito di avvocati ben più numeroso: 335. Ma che i guadagni di un dirigente a tempo indeterminato (e non licenziabile) di un Comune possa oltrepassare il tetto (302 mila euro) imposto alle buste paga dei superburocrati statali fa un certo effetto.
Come lo fanno i 27 milioni incassati ogni anno dal Campidoglio dalle pigioni dei suoi 43.053 alloggi contro i 21 milioni spesi per affittare dai privati 4.801 appartamenti da destinare all’emergenza abitativa. O il miliardo e 600 milioni di perdite accumulati in dieci anni dall’Atac, azienda pubblica che conta 12.276 dipendenti. Oppure le 84 voragini che lo scorso anno si sono aperte nelle strade di Roma: quasi il doppio del 2011. O ancora, i 56 pedoni mortalmente investiti nel 2012, il 37,8% di tutte le persone travolte e uccise dalle auto in Italia. Per non parlare dei 43 incidenti stradali al giorno, con tutto ciò che ne consegue. Un esempio? L’ex comandante dei vigili Angelo Giuliani è finito agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione e falso ideologico in relazione agli interventi di sicurezza stradale post-incidenti. Fu Giuliani a proporre all’ex sindaco Gianni Alemanno di affidare l’appalto alla SA- Sicurezza e Ambiente nel 2009: ogni opera di ripulitura di detriti e macchie d’olio partiva da una tariffa base di 900 euro per arrivare immediatamente anche a 5.000 euro.
È caos organizzativo, finanziario e anche morale quello nel quale la capitale d’Italia si dibatte. A causa dei vecchi debiti commissariati paghiamo un addizionale Irpef stratosferica. Il Messaggero ha ricordato che ogni contribuente romano subisce un prelievo medio di 1.040 euro l’anno contro una media nazionale di 440. E se dovesse tappare il disavanzo strutturale del bilancio comunale, stimato in 1,2 miliardi, ciascun residente dovrebbe tirare fuori ogni anno altri 436 euro. Anche qui si dirà che Roma non è l’unico Comune italiano sull’orlo del dissesto. C’è Napoli, dove metà dei cittadini non paga un euro di imposte. Ma anche città del Nord, come Alessandria che lo hanno dichiarato poco tempo fa. Oltre a essere la metropoli più grande, Roma è però la capitale. E poi il salvataggio rischia di essere inutile senza interventi per abbattere quel disavanzo mostruoso: impossibile andare avanti con un decreto salva Roma all’anno.
Quel che più preoccupa, tuttavia, è la scarsa prontezza di riflessi nell’affrontare una situazione che andava presa di petto molto prima. Anche perché non si avverte la necessaria reattività nemmeno nell’ordinaria amministrazione. Prendiamo la cultura, che dovrebbe essere il fiore all’occhiello di Roma. Nelle ore in cui la capitale può diventare 54 anni dopo la Dolce vita di Federico Fellini (che vinse la statuetta per i costumi) protagonista di un altro film da Oscar, La grande bellezza di Paolo Sorrentino, il bilancio è disastroso. Quasi nove mesi dopo l’insediamento della giunta Marino non c’è ancora un sovrintendente comunale. Manca poi un responsabile del Macro, il grande museo comunale di Arte contemporanea che rischia la chiusura per la mancanza di programmazione. Mentre nessuno spiraglio si profila ancora per una situazione ancora più assurda. Parliamo del settecentesco Teatro Valle, di pertinenza comunale dopo lo scioglimento dell’Ente teatrale italiano, ancora abusivamente occupato senza alcun bando, senza alcuna gara pubblica, senza alcun affidamento. Con il Campidoglio che continua lo stesso a sostenere le spese di gestione. Il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, il 13 febbraio, non ha riconosciuto la validità della Fondazione degli occupanti. L’attore e regista teatrale Carlo Cecchi ha dichiarato: «In nessun paese civile si lascerebbe un teatro fra i più antichi, fra i più belli, nelle mani di un piccolo gruppo di persone che potrebbero gestire al massimo un centro sociale».
Paolo Conti
Sergio Rizzo