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 2014  febbraio 28 Venerdì calendario

IO SONO MIA


Quando, molte vite prima di giurare eterno odio a Woody Allen, Mia Farrow incontrò l’uomo coi baffi, aveva diciassette anni e una borsetta di perline in mano. Stava andando a un party, aveva deciso che la scuola era un perdita di tempo e che doveva diventare la più bella e la più famosa delle sue graziose sorelle (Stephanie molti anni dopo si sarebbe vendicata dei soprusi e dell’egocentrismo rubandole per qualche tempo il fidanzato regista e sceneggiatore, che subito ci costruì attorno un film, Hannah e le sue sorelle).
L’uomo coi baffi le disse: «Sono Dalí. Le divine Dalí. Sono completamente pazzo». Aveva sessant’anni circa e Mia Farrow disse che aveva bisogno di un padre, di una guida, di qualcuno che le insegnasse il mondo. Suo padre, John Farrow, regista molto cattolico e molto incline allo scotch (una volta inseguì la madre, la bella e famosa Jane di Tarzan, per la casa con un coltello) era morto da un mese e Mia doveva diventare adulta. «Dalí mi introdusse nel mondo del surrealismo liberando i miei pensieri e abbattendo le mura della mia mente: comprendeva la parte più incontrollata e terrificante di me», ha scritto la Farrow nella sua autobiografia. Fu un periodo folle, di droga e foto tridimensionali, lui gettava banconote dalla finestra e lei andava ogni giorno nel suo albergo, al St. Regis di New York, per imparare «la magia compressa dell’universo» (lui le regalò per il suo diciannovesimo compleanno una «violenza imbottigliata»: un barattolo di vetro dentro al quale un topo divorava una lucertola).
Andavano insieme, con o senza la moglie di Dalí, alle feste più strane, dove gli ermafroditi camminavano nudi per le stanze e molte persone facevano orge sotto forma di quadri viventi al centro del soggiorno. Ci sono foto con Dalí, Mia e Amanda Lear, il triangolo psichedelico.
Mia Farrow non era una ragazza di campagna, nonostante le treccine che porta ancora adesso, nonostante quello sguardo spalancato, e niente la sconvolgeva davvero, già negli anni 60: aveva visto il padre perdere la testa per Ava Gardner e molte altre, aveva visto la madre scomparire la notte, sapeva che avere una faccia d’angelo (come la chiamava Frank Sinatra ai tempi del loro amore, angel face o baby face) può essere utile per impersonare il ruolo della ragazza ingenua, travolta dagli eventi anche mentre li cavalca. Così quando incontrò Sinatra sul set di un film (era diventata famosa con I peccati di Peyton Place, era riuscita a eclissare le sorelle e soprattutto Steffi, che faceva la modella), seppe che era arrivato il momento. Andò verso di lui, che l’aveva invitata a sedersi, e fece cadere tutto dalla borsa di paglia: apparecchio per i denti, assorbenti, omogeneizzati per il gatto, caramelle, gli oggetti di una fanciulla innocente e impaurita. Sinatra, 49 anni, si innamorò. Mandò un aereo a prendere lei e il gatto per portarli a passare la notte a Palm Springs. Qualcuno ha scritto che lei imparò subito quanto è facile fingere un orgasmo.
La biografa di Sinatra ha raccontato che Mia «era piuttosto manipolatrice per la sua giovane età» e che aveva una specie di «sinistra infatuazione» per Frank. Forse invece fu davvero un grande amore, visto che quella passione non si è mai davvero spenta e di recente Mia ha voluto svelare a Vanity Fair, forse per ferire di più Woody Allen, che il suo unico figlio biologico potrebbe essere in realtà figlio di Frank (e gli assomiglia molto). Allen non ha resistito e sul New York Times ha scritto: «Ho dunque mantenuto per tutti questi anni il figlio di Frank?».
Frank l’amava, soffriva per la differenza d’età, spendeva tutti i soldi del mondo, Lsd per lei e whisky e testosterone per sé, un anello da 85 mila dollari e una proposta di matrimonio. Lei aveva uomini più giovani, nel frattempo, e si stupiva di quanto poco bevessero rispetto a Frank. Si annoiava a Las Vegas, dormiva con la testa sul tavolo per significare il proprio disprezzo, lui si faceva mandare una prostituta, lei gli lanciava un posacenere addosso. Alla fine Mia disse che si era trattato di una specie di adozione franata, ma intanto era diventata un’attrice da centomila dollari a film e con Rosemary’s Baby Roman Polanski le aveva fissato addosso quella possibilità di follia che a volte baluginava nei suoi occhi azzurri («Ci sono 127 tipi di svitati al mondo», disse Polanski a un giornalista, «Mia è il numero 116»).
La Farrow partì per l’India con la sorella Prudence per ritrovare se stessa, la spiritualità e uno scopo, e trovò i Beatles, che scrissero Dear Prudence per sua sorella. Non scrissero Dear Mia, e questo fu abbastanza grave, lei si era tagliata i capelli in segno di «mitico suicidio» (disse Dalí), pesava 42 chili e viveva lunghe allucinazioni, confortate da un certo senso pratico che le faceva leggere sceneggiature negli alberghi di Calcutta dopo la meditazione e accettare ruoli a New York.
Aveva appena conosciuto André Previn, a quel punto, il musicista che non piaceva a Dalí, il direttore sposato della London Symphony Orchestra e Mia Farrow , 24 anni, rimase subito incinta, ancora prima che André si separasse dalla moglie. Dory Previn, cantautrice, impazzì di dolore e dovettero farle l’elettroshock. Dory nel 1970 ha scritto una canzone in onore di Mia, la donna che le ha portato via il marito, Beware of young girls. «Attenti alle ragazzine che arrivano alla porta, sognatrici e pallide, 24 anni, che regalano margherite con le mani delicate». Ma la vita chiamava, Mia Farrow doveva avere tutto: le margherite, i sogni, le mani delicate, e dopo i due gemelli ebbe un altro maschietto, poi cominciò ad adottare, anche durante la crisi di quel secondo matrimonio: adozioni come ancora, adozioni come salvezze.
Quello fu però un divorzio amichevole (Dory Previn lo aveva predetto, nella canzone: «Lei lo lascerà»), e Mia non mandò mai a Previn, per San Valentino, il biglietto-vodoo che spedì invece a Woody Allen subito dopo la fine del loro rapporto, nel febbraio del ‘92: una foto di Mia con tutti i figli e spilloni infilati dentro i loro cuori. Nel cuore di Mia, un coltello da bistecca. «La parte più incontrollata e terrificante di te», le aveva detto Dalí.
Più di vent’anni dopo, è arrivata la rivisitazione dolorosa dello scandalo, portata avanti da Mia come ogni impresa: non una sua decisione, ma la necessità superiore di salvare la sua famiglia e i diseredati del mondo. Mentre un figlio la accusa di «lavaggio del cervello», un fratello è stato condannato a dieci anni di carcere per molestie protratte sui bambini e lei, che nonostante l’odio eterno ha dato l’autorizzazione a usare la sua faccia e le sue apparizioni cinematografiche nel documentario su Woody Allen, tiene sempre gli occhi spalancati sul mondo, ma soprattutto su di sé. E aspetta la notte degli Oscar perché si parli ancora un po’ di lei.