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 2014  febbraio 28 Venerdì calendario

LO SCIENZIATO CHE PERDONA IL DIESEL E LA DIOSSINA


Roma. Un rapporto di causa a effetto è «statisticamente significativo» quando la probabilità che sia dovuto al caso è trascurabile. Fumo e tumore, per capirci. È un concetto importante per l’epidemiologia che ha tra i suoi compiti principali quello di valutare i rischi sanitari per la popolazione. Anche per questo motivo, come capirete tra un attimo, l’affaire Paolo Boffetta, prolifico e rispettato scienziato di fama internazionale, assume un colorito paradossale. Il professore, oggi direttore dell’istituto per l’epidemiologia traslazionale al Mount Sinai Hospital di New York dopo una lunga esperienza all’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) di Lione, si è trovato negli ultimi anni a riconsiderare una lunga lista di sostanze che una letteratura consolidata ha condannato: diossina, acrilamide, berillio, formaldeide, stirene, atrazina, gli scarichi del diesel, il cloruro di vinile e l’amianto. Per finire con i metalli pesanti dell’Ilva, grandi accusati per l’aumento dei tumori del polmone a Taranto. Boffetta non dice che non fanno male. Però specifica che, quando nuocciono, lo fanno in maniera diversa e generalmente più circoscritta di quanto si era sempre creduto. Spesso aggiunge che «le evidenze sono insufficienti». Più che sufficienti sono invece quelle riguardanti il finanziamento degli studi scagionatori: li hanno pagati le industrie che quelle sostanze producono o utilizzano. Dunque la domanda è: possiamo credere, come suggerisce il professore, che sia una casualità che la pensi in tutti questi casi in maniera favorevole alle aziende? Oppure il fatto che loro lo sovvenzionino ha un’incidenza «statisticamente significativa» sulle sue opinioni?
Non è un dibattito epistemologico. Si tratta, ben oltre il caso specifico, di capire se gli scienziati hanno più a cuore la salute dei cittadini o il proprio benessere. L’Italia è un repubblica fondata sul conflitto di interessi. Questa storia però si svolge all’estero. Succede che Boffetta, forte delle sue 943 pubblicazioni censite dalla banca dati PubMed, è il candidato unico per la guida del Cesp, il centro (pubblico) di ricerca in epidemiologia e salute delle popolazioni di Parigi. Ha il curriculum, ha relazioni: è una partita senza rivali. Dal Cesp obiettano solo rispetto a una sua affiliazione all’International Prevention Research Institute (Ipri), un istituto (privato) fondato anni prima da Peter Boyle, ex direttore della Iarc, per fornire studi e consulenze alle industrie sul tema dei rischi sanitari (Umberto Veronesi è nel comitato etico). Boffetta accetta: rinuncia al ruolo incompatibile e vende il suo pacchetto di azioni, oltre un quarto del totale. Niente più ostacoli all’investitura.
Senonché a metà dicembre Le Monde gli dedica un documentatissimo articolo dal titolo «Epidemiologia, le relazioni pericolose ». Da cui si scopre che, quando nel 2011 l’italiano scrive in Critical Reviews in Toxicology che «le recenti evidenze epidemiologiche non dimostrano in maniera conclusiva un legame tra l’esposizione al Tcdd (diossina Seveso, cancerogena secondo la Iarc) e il cancro negli esseri umani», lo fa sponsorizzato dell’American Chemistry Council. Oppure quando, nello stesso anno, relativizza i rischi dell’acrilamide, scarto delle cotture ad alta temperatura, lo studio è cofinanziato dalla Frito- Lay, controllata della Pepsi. Ancora nel 2012, negando un nesso causale tra esposizione al berillio e rischio di cancro, la review è pagata da Materion Brush, uno dei principali produttori. Nell’estate dello stesso anno, sempre in Critical Reviews in Toxicology, dichiara che non ci sono evidenze adeguate per confermare un legame tra scarichi di motori diesel e tumore del polmone. Dalla liberatoria che gli autori devono riempire si scopre che è consulente della Mining Awareness Resource Group (Marg), un consorzio di gruppi minerari i cui lavoratori sono tra i più esposti a queste esalazioni e, come fa notare il giornalista Stéphane Foucart, «i più suscettibili a fare causa al proprio datore di lavoro in caso di malattia». A metà giugno la Iarc classifica gli scarichi diesel come cancerogeni. Solo pochi giorni dopo la rassegna assolutoria firmata da Boffetta, su commissione del Marg. «Un lavoro che sembrava scritto apposta per influenzare le conclusioni dell’Agenzia di Lione» ha commentato sul quotidiano parigino Neil Pearce, ex presidente dell’International Epidemiological Association (contattato dal Venerdì, non ha risposto).
La lista delle convergenze tra conclusioni scientifiche e interessi dei committenti prosegue. Boffetta, gentile e disponibile a spiegare, non la vede così: «Io non scrivo ciò che vuole l’industria. Ho le mie opinioni e forse l’industria mi viene a cercare perché sa cosa penso». Resta che, con gli anni, è sempre più in sintonia con le aziende e sempre meno con la Iarc, cassazione della cancerogenicità («Non è così. Mantengo ottimi rapporti e oggi vado a pranzo con uno dei loro ricercatori »). Nella stragrande maggioranza dei casi se ha un conflitto di interessi lo dichiara, come richiede la politica delle riviste scientifiche. Quando, agli inizi del 2012, scrive sullo European Journal of Cancer Prevention che il rischio di mesotelioma per lavoratori esposti all’amianto in un passato lontano non è modificato in maniera apprezzabile da esposizioni ulteriori, non menziona però che, nella primavera del 2011, era consulente tecnico della Montefibre, l’azienda di Verbania sotto processo per le morti di diciassette operai. «L’ho dimenticato, è vero» ammette al telefono «ma l’articolo è uscito quasi un anno e mezzo dopo il processo». Come se il fatto di essere stato a busta paga dodici mesi prima fosse un dettaglio che si prescrive. «La tesi» commenta l’epidemiologo torinese Dario Mirabelli, consulente dell’accusa, «era che, contando solo le vecchie esposizioni ed essendo irrilevanti quelle successive, i dirigenti eventualmente colpevoli erano quelli degli anni 50 e 60. Peccato che loro erano morti, e quindi non condannabili, mentre quelli successivi sono stati tutti scagionati».
Come da lodo Boffetta. Che aveva anche un’altra peculiarità: i tempi di accettazione più rapidi della storia della scienza. Dal momento che era stata presentata il 28 settembre e accettata il 2 ottobre, alla faccia delle lungaggini bibliche che contraddistinguono il processo di peer review. Una corsia preferenziale forse non estranea alla circostanza che Carlo La Vecchia, co-autore di Boffetta e uno dei pochi che lo supera in prolificità (1.760 articoli, che in una carriera di 30 anni significa più di uno alla settimana, una media già invidiabile per un cronista), era uno dei due direttori dello European Journal of Cancer Prevention. Sul punto, Boffetta concede che quella rapidità «poteva dare adito a critiche».
La ragione per cui lo scienziato trapiantato a New York è finito sui giornali italiani riguarda però le acciaierie di Taranto. Dopo anni di sospetti l’Ilva finisce nei guai seri. I dati dello studio Sentieri dell’Istituto superiore di sanità mostrano aumenti spaventosi per i tumori del polmone e puntano il dito sui metalli pesanti della lavorazione. La famiglia Riva non ha intenzione di lesinare sulla difesa e contatta Exponent, la campionessa di quella che nel libro Doubt is their Product l’attuale sottosegretario alla sicurezza sul lavoro statunitense David Michaels definisce la multimiliardaria «industria difesa del prodotto». Il cui motto è: il cliente ha sempre ragione. Difende le aziende petrolifere (avendo in consiglio di amministrazione il più grande azionista di Chevron). Nega, per conto dell’American Beverage Association, che i distributori automatici di bevande zuccherine possano contribuire all’obesità. E via argomentando, sulla falsariga dell’Encomio di Elena in cui il sofista Gorgia si cimentava nella difesa impossibile dell’originatrice della guerra di Troia.
Anche stavolta la Exponent ha l’uomo giusto: l’epidemiologo del Mount Sinai, Boffetta. Che con La Vecchia ed altri firma una requisitoria contro Sentieri che i Riva usano per chiedere il dissequestro dell’azienda. Il documento introduce un altro possibile responsabile delle malattie: il fumo di sigarette, particolarmente diffuse a Taranto rispetto al resto del Meridione già dagli anni 60 e 70. La ricostruzione alternativa, oltre ad aver sgomentato attivisti e familiari delle vittime, viene citata come caso di studio nei seminari sui conflitti di interesse dell’Associazione italiana di epidemiologia. Boffetta ora puntualizza: «Hanno fatto una caricatura del nostro lavoro. Io non ho un’opinione precisa sul ruolo quantitativo delle emissioni di metalli pesanti da parte dell’Ilva nel causare tumori a Taranto, anche se è plausibile che queste emissioni abbiamo giocato un ruolo eziologico in un certo numero di tumori». Eppure l’ha difesa, suggerendo anche una spiegazione concorrente, il fumo. Come quando, negli anni 60, Big Tobacco reclutava ricercatori compiacenti per sostenere che i tumori al polmone nei pazienti esposti all’amianto erano dovuti a quest’ultimo e non alle sigarette. Salvo poi sostenere il contrario quando il cliente era l’industria dell’amianto. Confounders li chiamano gli esperti, fattori confondenti.
L’articolo di Le Monde registrava il malumore di un certo numero di epidemiologi rispetto alla candidatura. Poi una furente lettera aperta dell’Andeva, l’associazione francese di vittime dell’amianto, fa il resto. La vicenda è ormai incandescente. «Non solo il Cesp non mi ha difeso» lamenta Boffetta «ma mi ha anche proibito di difendermi». Non contesta le liaisons dangereuses, si limita a darne un’interpretazione benevola. Delle persone sentite per quest’articolo varie hanno preferito mantenere l’anonimato. Hanno lavorato con Boffetta, non vogliono farne una questione personale. Sulla rivista Epidemiologia e Prevenzione Rodolfo Saracci, una vita alla Iarc e oggi affiliato all’Istituto di Fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche a Pisa, commentando il caso definisce un «grossolano errore di casting» mettere in ruoli chiave di sanità pubblica epidemiologi che, tra un eccesso e un difetto di cautela, sembrano sempre propendere per il secondo.
Morando Soffritti, direttore dell’Istituto Ramazzini, uno dei pochi a finanziamento diffuso in Italia, prende spunto dal particolare per una denuncia universale: «C’è pieno di ricercatori che, acquisita una produttività scientifica nel settore pubblico, passati i quarant’anni si preparano il terreno per essere cooptati dall’industria privata. L’importante sarebbe non continuare a considerarli per quello che erano prima». Travolto dalla bufera mediatica, Boffetta ha ritirato la sua candidatura. Chi l’ha conosciuto anni fa racconta di un giovane brillante e motivato. Che a un certo punto sembra aver deciso di non farsi più nemici. Al telefono è parso stanco di questa storia, quasi incredulo che potesse suscitare interesse fuori dai consessi specialistici. Ma il posto che stava per andare a dirigere ha varie affinità col nostro Istituto superiore di sanità. E uno si aspetta che, nel valutare della pericolosità dell’amianto o delle onde elettromagnetiche (a questo proposito il ricercatore Henry Lai ha calcolato che negli studi indipendenti c’è il 67 per cento di probabilità di trovare un effetto nocivo, che sprofonda al 28 se a pagare è l’industria), chi li dirige abbia la massima libertà intellettuale. Lui rivendica il diritto ad avere opinioni difformi, cita rivalità personali in questa vicenda. Ma se ti pagano – o ti hanno a lungo pagato – le stesse aziende che dovresti controllare, io diffido. Boffetta, apparentemente in buona fede, non vede il problema. Questo mese dovrebbe essere consulente della Takeda, la più grande azienda farmaceutica dell’Asia, a processo negli Stati Uniti per casi di cancro alla vescica potenzialmente legati all’assunzione di un suo antidiabetico. Che in Francia è stato ritirato dal commercio nel 2011.