Vittorio Zincone, Sette 28/2/2014, 28 febbraio 2014
MA CHI HA DETTO CHE SVILUPPO ED EQUITÀ SOCIALE NON POSSONO CONVIVERE?
[Intervista a Pier Mario Vello] –
«Le società sono sempre più diseguali e la possibilità di migliorare le proprie condizioni sempre più difficile», dice il segretario della Fondazione Cariplo. «Perché la politica e l’economia ormai pensano sul breve periodo»
Pier Mario Vello, sessantatré anni, da sette segretario generale della Fondazione Cariplo, non è il tradizionale uomo di potere. È un manager inusuale, di quelli che parlano a voce bassa e pronunciano frasi che sembrano scritte da Jovanotti: «Un leader è un creatore e un catalizzatore di emozioni». È esperto di apprendimento cognitivo e di organizzazione del lavoro e se ti deve spiegare come si crea un team, parte dalle parole passione e bellezza.
Ha scritto un libro, La società generosa, con Martina Reolon, per Feltrinelli, che è un inno laico all’altruismo e alla filantropia. C’è anche una critica feroce al mercato, ormai sempre più imbarbarito, e allo Stato, che non si occupa più delle diseguaglianze. Lo provoco. Sembra un po’ paradossale che a fare queste considerazioni sia una persona che dirige una fondazione bancaria, cioè uno dei luoghi in cui si manifestano e si intrecciano il potere del pubblico e del privato. Sorride. Prima dice che lui parla e scrive a titolo personale e poi chiarisce: «C’è modo e modo di fare profit». Cita l’esperienza di Olivetti: l’attenzione alle risorse umane, l’equità delle retribuzioni…
Le banche italiane di oggi non sono percepite esattamente come la Olivetti degli anni Cinquanta. Anzi. Da molti sono considerate motore di disuguaglianza.
«Bisogna rispettare la natura di chi nasce e si sviluppa per fare profitto. Dopodiché tutti dovrebbero pensare un po’ di più agli interessi della società. Partiamo da un presupposto…».
Quale?
«Le crisi finanziarie si susseguono da anni. Eppure si continua a parlare di società opulente».
Non viviamo in una società opulenta?
«Lo è per qualcuno. Per pochi. E la differenza tra ricchissimi e poveri aumenta ogni giorno di più. Ci siamo infilati in una bolla di senso».
Come, scusi?
«Dato che tutti pensano che la felicità ruoti intorno all’accumulo di ricchezza, tutti agiscono di conseguenza. È una bolla che bisogna far scoppiare, per uscirne. Le faccio una domanda».
Sono pronto.
«Lei preferirebbe vivere nella nazione più ricca del mondo con un forte indice di ineguaglianza, o in uno Stato malconcio con un buon livello di uguaglianza?».
Direi nel secondo.
«Pure io. In Italia, come in molti altri Paesi dell’Occidente, la politica ha smesso di occuparsi di equality tra le classi sociali».
Si dice che al momento sia più importante creare sviluppo.
«Non vedo perché sviluppo e redistribuzione non siano compatibili. È una falsa speranza quella per cui se pochi accumulano grandi ricchezze poi quelle ricchezze si travasano automaticamente nei ceti più poveri. Le società sono sempre più disuguali e l’ascensore sociale si è inceppato. I poveri, attualmente, hanno altissime probabilità di restare tali. È questa la società che vogliamo? Se lo dovrebbe chiedere la politica. E anche chi fa impresa».
Secondo lei perché non avviene?
«La politica e l’economia, ormai troppo spesso, pensano sul breve periodo. I partiti devono fidelizzare gli elettori in vista dei frequenti appuntamenti elettorali. E le imprese hanno problemi di bilancio. Ma allora chi pensa in termini di lungo periodo?».
Si dia una risposta.
«Può farlo questo movimento della filantropia che sta crescendo in tutto il mondo».
Sta parlando anche della sua Fondazione Cariplo?
«Non solo. Mi riferisco anche alle Ong, alle associazioni di volontariato. Troppo spesso le istituzioni confondono i ruoli. Invece di ascoltare le Ong e le Fondazioni, sperano che queste si comportino come un rescue team, un pronto soccorso sociale che mette un cerotto dove il pubblico non riesce a curare una ferita sociale. Un governo illuminato dovrebbe fare altro».
Mi fa un esempio di governo illuminato?
«Obama. Con lui la Casa Bianca ha istituito un ufficio per gestire i rapporti con le Civil Society del Terzo Settore. Le Ong o le Fondazioni che lavorano sul territorio, proprio per le dimensioni ridotte e per la loro natura no profit, possono sperimentare e progettare soluzioni di lungo periodo. Queste realtà, promosse e sostenute, potrebbero dare ai governi un grande aiuto per l’ottimizzazione delle politiche sociali e culturali».
Molti imprenditori e manager ricchissimi si danno alla charity. È un modo per sciacquarsi la coscienza?
«Non credo. È un fatto encomiabile e positivissimo. Ma bisogna stare attenti».
A che cosa?
«Al tipo di charity. Queste attività vanno monitorate, devono essere trasparenti. È necessario che poi ci sia un controllo sull’impatto che la charity ha sul territorio e sulla qualità dei servizi che riesce a erogare».
Nel libro La società generosa lei scrive: «Occorre una rivoluzione, culturale e civile… a partire dal nostro modo di rapportarci agli altri e di interagire in una società democratica».
«Una voce fondamentale per avviare questa rivoluzione è l’educazione. Nell’educare i bambini, oggi si punta troppo sulla competizione e troppo poco sulla condivisione. Anche nel mondo dell’informazione, comunque, prevale un modello sbagliato».
Quale modello?
«Quello post-moderno per cui la profondità non va più di moda. Nelle discussioni, nei talk show, sui titoli dei giornali, l’ironia e i toni alti vincono sempre sull’approfondimento. Ma è dall’approfondimento che nascono le idee che fanno maturare la società civile. E una società civile matura è alla base di una democrazia solida».
Lei che studi ha fatto?
«Ho frequentato un liceo sperimentale a Torino: sono diplomato in Fisica Atomica e Nucleare. Poi mi sono iscritto a Filosofia».
Il primo lavoro?
«Insegnante al liceo. Succedeva ieri come succede oggi: precario e mal pagato. A un certo punto ho pensato: se lo Stato non mi paga, evidentemente pensa che il mio lavoro non sia necessario».
I soldi non sono l’unico modo per gratificare un lavoratore.
«Questa è la frase che si sentono dire molti ragazzi dai turlupinatori che gli danno lavoro».
Lei era all’università durante gli anni Settanta. Ha mai fatto politica?
«No. La politica non mi interessa e non mi entusiasma. Lasciata l’università cercai un impiego nel mondo delle imprese e della finanza. Mi scoprii molto ignorante. E così presi un master alla Bocconi».
Per molti anni lei si è occupato di marketing e di risorse umane per aziende nazionali e multinazionali.
«Nel 2006 Giuseppe Guzzetti mi chiamò alla Fondazione Cariplo».
Guzzetti, in Italia, è un simbolo del potere.
«Aveva bisogno di una persona con competenze organizzative».
A cena col nemico?
«Tendo a considerare nemiche le persone con troppe certezze, col coltello tra i denti. E con queste non ceno volentieri».
Ha un clan di amici?
«La più recente è Martina Reolon, con cui ho scritto La società generosa. Per qualche mese ci siamo trovati il sabato in una cioccolateria di un paesino di montagna in Val Belluna per ragionare sulle nostre carte».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Forse smettere di insegnare».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«Sposare mia moglie Nadia, nel 1983».
Ha figli?
«Una, Sara. Ha 27 anni».
A sua figlia consiglia di restare in Italia o di espatriare?
«Di restare. L’Italia è un Paese bello e positivo. Bisogna restare proprio per cambiare le cose da qui».
Che cosa guarda in tv?
«Non la guardo».
Il film preferito?
«Tra i più recenti Zoran, il mio nipote scemo di Matteo Oleotto».
La canzone?
«Tutto Elvis Presley e tutto Franco Battiato».
Il libro?
«Quello di Jonathan Israel sull’illuminismo: Una rivoluzione della mente».
Un romanzo?
«Non leggo romanzi. Mi annoiano. Leggo saggi e poesie».
Poesie. Lei ha raccolto le sue nel volume Migranti.
«Sono versi lunghi a sfondo civile».
Sa che cos’è Twitter?
«Sì, ma non cinguetto. Non sono nemmeno su Facebook. Non ho tempo».
Conosce l’articolo 139 della Costituzione?
«No».
È quello che impedisce la revisione della forma Repubblicana. Lei aggiungerebbe la parola generosità nel testo della Costituzione?
«No. Anche perché tra le righe, a cercare bene, già la si trova».