Edoardo Vigna, Sette 28/2/2014, 28 febbraio 2014
«VEDO TROPPI IAGO. E IL POTERE STRITOLA TUTTI»
«Si deve dire allora che il potere non è in mano ai re. Che le corone vacillano, anche loro. Ai re glielo danno in affitto, il potere. Un potere pro tempore, anche se questa verità gli fa orrore, ai re. Che la passione del potere è immortale, ma il gioco dei potenti è una giostra impazzita. E si deve dire che è lui, il potere, a possedere i potenti di turno. Che, lui, li fa salire, li fa scendere, li fa correre, li fa sgambettare, li fa urlare, li fa tremare, li fa sudare, li fa brancolare loro, i re. Che sono i vacillanti. Che sono loro, i soccombenti». Così, pescando nella parola shakespeariana, Salvatore Veca, il filosofo della politica, aveva scritto (nel 2012) un testo da leggere – lui stesso – al Teatro No’hma di Milano. Raccogliendo quella ispirazione che il Bardo aveva cominciato a trasmettergli «fin da adolescente»: «Perché “lui” non ti molla mai. Una parte ti rimane sempre in un retrobottega della testa. I sonetti, il mio mito da giovanissimo. E poi Re Lear, Macbeth, Amleto, Troilo e Cressida, Antonio e Cleopatra», spiega. «Il mio voleva essere un divertissement», sottolinea. Ma che mirava al cuore “politico” stesso dell’opera di William Shakespeare, uno dei suoi grandi temi: il gioco del potere. «E in primo luogo, il problema del potere stesso del poeta: quello della sua capacità di durare nel tempo».
Missione compiuta, per Shakespeare, a giudicare dall’impressionante quantità, anche in Italia, di produzioni che si rifanno al Bardo.
«Prendiamo il Re Lear, che adoro. Parla e genera riflessioni – a volte domande, a volte emozioni – oggi, come tra i suoi contemporanei, e poi tra quelli di Schiller e Goethe. E si offre come palinsesto per interpretazioni ulteriori. Il fatto è che in Shakespeare – e nei grandi classici –, c’è sempre un duplice registro: è ciò che chiamo un mobile confine fra prossimità e distanza. Puoi vedere Lear come la vecchia storia di un mondo lontano o puoi sentirlo vicinissimo. È questa ambiguità che permette il ventaglio di interpretazione. Ma cosa resta “delle corone, degli allori e degli scettri”, come diceva lui (nel monologo di Ulisse, in Troilo e Cressida, ndr)? Cosa permane? Non le persone, ma la grande macchina della lotta per il potere, della sua conquista, del disarcionamento, della cospirazione. In fondo, i leader politici di oggi recitano molto e sono attori in questo gran teatro del mondo: vogliono giocare e recitare un ruolo. Ciascuno dei personaggi di Shakespeare, però, conosce al tempo stesso l’orgasmo del potere ma sa anche che le cose come cominciano, finiscono».
Chi, per esempio?
«Riccardo II (simbolo di un potere dall’alto, contrapposto e sconfitto da Enrico di Bolingbroke, investito dal basso, ndr). “Per amor di Dio, sediamoci sulla nuda terra a recitar le tristi cronache della morte dei re: come alcuni furono deposti, altri uccisi in guerra, altri ossessionati dai fantasmi di chi avevano deposto, alcuni avvelenati dalle mogli, o assassinati nel sonno: tutti morti ammazzati. Ché entro la vuota corona che cinge le tempie mortali di un re, tiene corte la morte: e là s’insedia, beffarda, irridendo al potere di lui, ghignando alla sua pompa, concedendogli un breve respiro, una particina – sovraneggiare, incuter timore, fulminar con lo sguardo – facendolo pieno di sé, quanto di vuote illusioni, come se questa nostra carne, prigione dello spirito, fosse di bronzo indistruttibile. E dopo averlo così lusingato, viene alla fine, e con uno spillo da nulla perfora le mura di quella fortezza, e addio re!”. Leggo ancora con la penna in mano: e accanto a righe come queste posso solo scrivere: Grande!!!».
Con tre punti esclamativi…
«Già. Ma per chi scriveva il poeta? Semplice: per avere successo allora, nei teatri londinesi della sua epoca. Eppure ha fatto un’opera che parla anche – diciamo – a “controparti opache”, per lui».
Noi. Quattro secoli abbondanti dopo.
«Una percezione chiara che abbiamo è che Shakespeare ha scritto in un “tempo di passaggio”. Che è poi quel “Time out of joint” del famoso mantra di Amleto. “Un tempo sgangherato”. Lui, ma anche i grandi poeti dell’epoca come John Donne e Christopher Marlowe, erano consapevoli del grande cambiamento in atto intorno a loro. Nel Troilo e Cressida c’è un discorso meraviglioso di Ulisse sulla gerarchia che tiene insieme il mondo e sul suo collasso che dà il senso del vortice e dell’incertezza. E le “passioni di incertezza”, come diceva Spinoza, sono due: la paura e la speranza. Il mondo in cui viveva Shakespeare, quello della seconda metà del ’500, non era più riconoscibile. E il grande trauma della “coscienza europea” di allora era il problema della teoria copernicana e galileiana».
Quel Galileo Galilei coetaneo di Shakespeare.
«È una roba enorme. Diceva: guardate che non siamo più al centro del mondo. Una svolta così genera incertezza e rompe i legami. E il tono dei grandi drammi shakespeariani è il tono della transizione, del passaggio. Quindi di ciò che è “perturbante”, proprio nel senso tecnico del bellissimo scritto di Sigmund Freud: “Unheimliche”, dove heimliche è la casa e un è negazione. Insomma qualcosa che è, al tempo stesso, familiare e straniero. Come quando vedi una persona dopo molto tempo: la riconosci, ma c’è qualcosa che ti spiazza».
La lotta per il potere resta la costante.
«La congiura, la delazione, l’ambiguità; il tema di Machiavelli, che in Shakespeare è fondamentale. Riccardo III è tipico, in questo senso: il fine è la massimizzazione del potere sulle vite umane. E le strade sono tante. Ancora in Troilo e Cressida, Tersite che fa il controcanto a Ulisse e dice: “Guerra e lussuria, sempre di moda”. Volpe e leone, per dirla ancora con Machiavelli. Virtù e fortuna. Le strategie del disumano. Ma c’è il grande tsunami delle gerarchie. Si pensi a come l’esercizio del potere fosse stato per lunga tratta riconducibile a una qualche autorizzazione divina – il diritto dei re –; mentre l’opera shakespeariana pullula di corone che saltano e teste sgozzate, re che salgono e collassano… Colpisce questa visione quasi nervosa, sensibile al tempo dei passaggi. Vi sono cose che permangono, fanno parte dell’arredo del mondo, e altre che cambiano: si aprono varchi di possibilità, i figli possono rinnegare i padri, è l’idea del mondo che si può rovesciare. E Shakespeare è sempre in disequilibrio».
Quali personaggi spiegano meglio questa nuova visione?
«Per consacrarlo basterebbe la grande scena della tempesta di Lear, dove il re diventa matto accanto al “matto” – il giullare. Il re si spoglia dei segni del potere, e dice “via le cose prese in prestito”. È come Macbeth alla fine: restano nudi. L’epifania in cui il re è nudo dice molto sul senso del potere. Che dipende da cose che prendi in prestito, visto che il potere te lo “affittano”, e tu sei autorizzato pro tempore anche se vorresti esserlo in eterno… E mentre le corone girano, la macchina del potere stritola tutto. Proprio nel Re Lear, a questo punto, Shakespeare chiede: cos’è un essere umano?».
Forse il re non è del tutto nudo, ma anche nel nostro tempo, l’incertezza è a livelli di guardia.
«Le persone che, come me, si sono formate nel secondo Dopoguerra e hanno cominciato a progettare la propria vita negli Anni 60, avevano come riferimento l’esercizio della politica come competizione in cui chi era autorizzato a governare pro tempore rispondeva a coloro su cui esercitava il potere. Questo oggi è sotto pressione, e noi cerchiamo di riattrezzarci: ma la globalizzazione ha cambiato la geografia e la Storia. In secondo luogo, come il mondo di Shakespeare aveva consolidato la rivoluzione di Gutenberg, anche noi siamo figli di una trasformazione “Gutenberg”, quella del digitale, che cambia il modo di convivere, e il modo di funzionare delle economie finanziarie, visto che in questo momento ci sono algoritmi che girano – e stritolano – e fanno sì che un fondo sovrano si stia appropriando di metà pil di un Paese...!».
Un bel mondo “sgangherato”…
«Questa è la costellazione in cui ci agitiamo. E infatti, per i grandi poeti del ’500 il destino è un successo straordinario! Ora, di fronte all’incertezza puoi avere l’atteggiamento della securitas: percepisci il tempo sgangherato come tempo della dissipazione, pensi che i figli stiano peggio dei padri, che il ceto politico faccia schifo, che i metodi di selezione del ceto politico favoriscano il fedele e il cretino. E tenti di sopravvivere. Dall’altra parte, se le cose stanno cambiando, se posso percepire delle opportunità, la curiositas mi spinge a mettere le vele al vento. Oggi il primo sembra prevalere».
E non ci sono neppure grandi personaggi shakespeariani…
«Ci sono molti Iago e svariate caricature di Riccardo III. Gente di basso profilo, che segue invece di anticipare, quindi non leader. Sono pochissimi gli Enrico V (l’eroe di Shakespeare nell’omonimo dramma storico, ndr)».
Che suggerimento si può pescare in Shakespeare?
«Dovremmo prendere sul serio il fatto di “ingentilire il potere”, un tema che ricorre nella sua opera. Ce l’insegna il finale di Macbeth, del Re Lear e anche il finale di Amleto».
Ingentilire il potere. L’epilogo del governo Letta non indica che si sia presa questa direzione.
«Chissà, forse dovremmo bere il calice fino in fondo. Arrivare a una notte della tempesta di Lear, in cui ci si “strappa via le cose prese in prestito”. Sfiorare l’abisso per tirarci su con un colpo di reni. Del resto, Shakespeare avrebbe forse trovato il gioco dei potenti dalle nostre parti più una cosa per il suo personaggio Falstaff».
Quando la stampa straniera racconta l’ascesa e la caduta di Berlusconi pensa piuttosto a qualche tragedia.
«La sua resistibile ascesa e “degradante” – nel senso di “dolce” – caduta… Lui è un tipico personaggio shakespeariano da Falstaff. Ha bisogno di amore e riconoscimento, ma in lui c’è anche l’orrore della “senectute”. Ha mirato alla permanenza, alla durevolezza, è il leader che non può pensare che ci sia un mondo in cui lui non ci sia e non eserciti un potere. È un modo di esorcizzare la morte. Lifting all’anima, alla mente e al corpo».
Cosa ci manca perché oggi arrivi sulla scena qualcuno a cui riconoscere la statura di un personaggio shakespeariano? In fondo qualche tratto, qua e là, affiora: Enrico Letta, per esempio, richiama il rispetto delle istituzioni di un Polonio, dell’A-mleto, consigliere del re, tipico “uomo nuovo” – forse ispirato a Lord Burghley, consigliere di Elisabetta I – anche se poi il personaggio teatrale prende una deriva differente. E l’ambizione rivendicata così a gran voce da Matteo Renzi non può non far pensare ai primi passi nell’ascesa al potere di un Riccardo III...
«Non è tanto un problema di persone, che si modellano sulla base delle circostanze e delle condizioni. Il problema del decadimento del ceto politico, in Italia, è legato al cambiamento delle regole per il riconoscimento delle ambizioni meritate. Qualcuno dice “sono ambizioso”? Magari lo ritwitti, ma è finita lì. Il fatto che uno dica di esserlo non implica che lo sia davvero. Il Blair italiano? Su quello autentico ho un giudizio articolato, diverso fra quello degli inizi e quello del finale della guerra in Iraq. Il leader laburista che nel ’97 pone termine alla durevolezza dei Tory (al potere, tra Lady Thatcher e John Major, dal 1979 al 1997, ndr) è uno che è emerso e ha assunto dimensione di leadership attraverso meccanismi durissimi di messa alla prova. Le nostre primarie sono sempre un po’ informali. Ed è naturale che la leadership s’indebolisca. Renzi sembra che stia recitando la parte di chi dice di essere ambizioso. Serve gente che abbia il coraggio della veridicità».
Il popolo talvolta entra nella scena. Che può dirci, Shakespeare, di Beppe Grillo?
«Mi viene in mente il confronto tra Bruto e Antonio. È l’idea, molto rinascimentale, della capacità dei padroni del discorso pubblico – l’orazione nella piazza e oggi nella Rete – che acchiappano e modellano le menti di frazioni di popolo. E la Rete oggi è luogo di bellezza e di orrore. Di nuovo, è un tempo “fuori dai gangheri”: certe fonti di autorevolezza si assesteranno, ma per ora la Rete è anche capace di uccidere, come abbiamo visto di recente. Il web è ciò che in Shakespeare è il meccanismo del potere anonimo, che dura, gira, spezza le vite, anche se i luoghi e i modi di esercitare il potere cambiano».
E Napolitano?
«Lo chiamerei Prospero».
Il duca di Milano della Tempesta.
«È un omaggio, anche un po’ ironico. Lui tiene i fili della magia. Perché? È l’unico che abbia potere sulle menti degli altri. Gli auguro di poter fare un commiato come Prospero. “Ora, solo ora ho infranto i miei incantesimi. Ora gioca la mia sola forza: è poca. Rompete voi il vostro incantamento con le vostre mani magiche e spingete le mie vele con i vostri fiati amici. Non ho più a darmi manforte i miei spettri alleati e alla fine obbidienti. Né artifici né incantamenti… E se a voi, cari signori, piace d’essere perdonati dei peccati, date adesso a me licenza di partire e accomiatarmi libero».
1 - continua