Rocco Moliterni, La Stampa 28/2/2014, 28 febbraio 2014
ADDIO AL RISTORANTE CHE CREÒ L’OSSESSIONE DEL TIRAMISÙ
È una di quelle notizie che è difficile mandar giù: il 30 marzo chiude i battenti le Beccherie, lo storico ristorante di Treviso dove è nato alla fine degli Anni 60 il tiramisù, il dolce al cucchiaio diventato simbolo della gastronomia italiana nel mondo non meno degli spaghetti o della pizza.
La crisi picchia duro e la famiglia Campeol che lo gestiva fin dalla sua nascita, nel settembre del 1939 (aprì proprio nei giorni in cui scoppiava la Seconda guerra mondiale), ha deciso di gettare la spugna (e il cucchiaio) e chiudere il locale. «Ormai – ha dichiarato Carlo Campeol, attuale titolare – anche i bar e tabaccherie danno da mangiare, non si può più andare avanti».
Le Beccherie non se la passavano molto bene già da tempo, nel senso che non erano più considerate come in passato un tempio della gastronomia, dove gustare non solo il tiramisù ma anche le altre prelibatezze della cucina trevigiana, dalla pasta e fagioli ai risotti e ai mille piatti con il radicchio rosso. Le guide che fanno il bello è il cattivo tempo in questo campo (dalla Michelin al Gambero Rosso) avevano smesso di segnalarlo e non bastava a tirarlo su la gloria di aver battezzato quel po’ po’ di dessert. Già alcuni anni fa il locale nel cuore della città aveva ridimensionato gli spazi, rinunciando a una delle più belle sale, ora la situazione si era fatta insostenibile.
Sempre più lontani appaiono così i giorni in cui la signora Alba, moglie di Ado Campeol (padre dell’attuale titolare) e il pasticcere Roberto Linguanotto, rielaborando l’antica ricetta della cosiddetta coppa imperiale, lanciarono il dolce al cucchiaio che avrebbe fatto il giro del mondo. La paternità fu a lungo controversa, perché anche un altro ristorante, El Toulà, allora famoso a Treviso, ne rivendicava la primogenitura.
Nessuno aveva brevettato la ricetta e le discussioni furono infinite. Ma le Beccherie non smisero mai di essere orgogliose di aver dato i natali a un’eccellenza del Made in Italy, proprio come l’Harry’s Bar di Venezia (anch’esso non risparmiato di recente dai venti di crisi), culla del carpaccio e del cocktail Bellini.
Ma qual è il segreto del successo del tiramisù (anche l’accento sulla u è oggetto di diatriba, per i puristi non ci andrebbe)? Il mix di savoiardi, caffè, mascarpone, panna, zabaione sembra aver incontrato il gusto dei palati più lontani, da quelli rudi degli americani, che crescono a bistecche, a quelli dei giapponesi (del tiramisù fanno un vero e proprio culto) abituati alle delicatezze del sushi.
Un dolce «energetico», un dessert simile al tiramisù, era già conosciuto ai tempi della Serenissima, ne facevano uso i libertini tra una performance erotica e l’altra nei bordelli di Venezia. E una certa aura, legata alle vere o millantate capacità amatorie degli italiani, il tiramisù (il nome si presta a più di un’allusione) se la porta dietro. Anche in Piemonte c’è chi dice che Cavour si deliziasse con un dolce non molto diverso. E siccome in Italia le cose sono sempre complicate, non bisogna dimenticare che in Toscana, a Siena, sostengono che ai tempi di Cosimo III, nel XVII secolo, i pasticcieri di corte avrebbero inventato una Zuppa del Duca che potrebbe essere considerata la nonna del tiramisù.
Peraltro proprio gli ingredienti sembrano un frullato di italianità: dai savoiardi che vengono dal Piemonte al mascarpone tipico della Lombardia, dal caffè che aveva a Venezia una delle sue capitali al Marsala che invece ci parla di Sicilia. In altre parole il tiramisù è quasi un simbolo dell’Unità del nostro Paese e oggi della sua versatilità. C’è chi lo fa con i Pavesini e chi con il limoncello, chi non ci mette la panna e chi lo destruttura. Ma su una cosa sembrano tutti d’accordo, quelli che a Tokyo come a New York, a Johannesburg come a Stoccolma, non riescono a finire un pasto senza affondare il cucchiaio in questa delizia: proprio come recitava lo slogan di un famoso caffè, il bello del dolce inventato alle Beccherie di Treviso è che più lo mandi giù e più ti tira su.