Nicola Pini, Avvenire 28/2/2014, 28 febbraio 2014
DA VELTRONI AD ALEMANNO, LA CAPITALE DEL PROFONDO ROSSO
Ieri sera al Teatro dell’Opera di Roma la prima di Manon Lescaut di Riccardi Muti è andata in scena quasi per miracolo. Lo spettacolo è stato infatti fino all’ultimo a rischio annullamento, per uno sciopero indetto da parte dei sindacati e revocato in extremis. Lo stato di agitazione nell’ente lirico romano, che naviga in mare di debiti ed è alle prese con un difficile tentativo di ristrutturazione, nasce dai timori per la tenuta dell’occupazione. Nella sola gestione 2013 il teatro ha prodotto un ’buco’ da 10 milioni di euro. E questo nonostante i 17 milioni assicurati dal Campidoglio (oltre ai fondi nazionali) per tenere in vita il traballante ente. Per fare un paragone, il Comune di Milano spende 6 miliardi per la Scala.
Si potrebbe partire da qui - solo un esempio e nemmeno il più importante - per descrivere lo stato di fragilità e dissesto del Comune di Roma e della miriade di enti e società che fanno capo a vario titolo all’amministrazione capitolina. Una capitale con i conti strutturalmente in rosso, le tasse locali tra le più alte d’Italia e una qualità dei servizi offerti ai cittadini che definire insufficiente è un eufemismo. Una recente indagine della Commissione Ue sullo stato dei servizi pubblici locali di 83 grandi città europee ha piazzato Roma a un’imbarazzante 81esima posizione, ultima tra le capitali del Vecchio continente e terzultima in assoluto, precedendo le sole Napoli e Palermo. Servizi scadenti, ma con tariffe in netto aumento, afferma la ricerca.
Il paradosso Roma sta tutto qua. Macchina amministrativa poco efficiente ma costi record. Gran parte delle risorse infatti è assorbita dalla spesa corrente, a partire dagli stipendi del personale. Con circa 60mila dipendenti Roma Capitale è una delle più grandi società italiane. 24mila sono gli impiegati comunali in senso stretto, gli altri sono disseminati nelle decine di partecipate, a partire dall’Atac, un gigante dei trasporti urbani e, soprattutto, dei debiti. Un esercito cresciuto fino a pochi anni fa a dispetto di ogni taglio lineare, vedi ad esempio lo scandalo di Parentopoli, con centinaia di assunzioni ’amicali’ nelle aziende comunali tra il 2008 e il 2009, ora al vaglio della magistratura.
Nel 2013 il primo municipio italiano ha prodotto un rosso da oltre 800 milioni su un bilancio di 6,5 miliardi. Un mega-deficit lasciato in gran parte in eredità dalla gestione di Gianni Alemanno a quella di Ignazio Marino, che ha chiesto aiuto al governo. Così si aperta la saga dei decreti salva- Roma, non ancora terminata.
Ma il buco dei conti romani non è affatto una novità. Lo stesso Alemanno al suo arrivo al Campidoglio dopoWalterVeltroni aveva trovato le sue gatte da pelare. Per un paio di decenni la polvere della spesa facile era stata spinta sotto il tappeto e il debito stava esplodendo. Così nel 2008 governo e Comune di Roma decidono di separare i debiti pregressi della Capitale dal bilancio corrente. Al pagamento dei vecchi passivi, affidati al commissario Massimo Varazzani, provvede Pantalone, cioè tutti i cittadini italiani con le loro tasse, e in parte, i soli contribuenti romani. Dal Tesoro arrivano ogni anno 300 milioni, mentre 200 sono coperti con un aumento dell’addizionale Irpef dello 0,4% pagata solo a Roma e una quota sui diritti di imbarco (1 euro) negli aeroporti dell’Urbe. Risorse grazie alle quali negli ultimi quattro anni il commissario è riuscito a ridurre di 7,5 miliardi il debito residuo, scendendo dagli oltre 22 miliardi originari agli attuali 15 miliardi scarsi che, al netto degli interessi, sono in realtà una decina. Quanto basterebbe per un primo taglio del cuneo fiscale.
Lo strappo contabile imposto con l’introduzione della gestione commissariale del debito pregresso avrebbe dovuto riportare il sereno sul bilancio corrente. Ma non è andata così. Nonostante le entrate aggiuntive assicurate dall’Imu, i conti di Roma continuano a non tornare. Il decreto Salvacapitale ora decaduto interveniva scaricando sulla gestione commissariale vecchi debiti per 485 milioni di euro, risorse che vanno a vantaggio dei bilanci 2013 e 2014. Soldi senza i quali il Comune di Roma sarebbe in sostanziale default. Nel corso della discussione sul decreto legge, Scelta Civica aveva chiesto di porre condizioni molto severe al Comune di Roma in cambio del nuovo aiuto finanziario: dalla privatizzazione di aziende comunali, alla chiusura degli enti non di servizio, alla mobilità dei dipendenti. Condizioni che l’ultima versione del decreto, su pressione del Pd capitolino e, più in generale, delle forze che hanno governato la capitale negli ultimi decenni, erano state in buona parte edulcorate. Oggi in Cdm la nuova puntata del salva-Roma. Resta da capire se sarà davvero l’ultima.