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 2014  febbraio 27 Giovedì calendario

INTERVISTA A GUALTIERO MARCHESI


Il 19 marzo saranno 84. E sono in molti quelli che pensavano che la chiusura del ristorante Gualtiero Marchesi di Erbusco, in Franciacorta, fosse anche la fine della sua militanza in cucina e l’inizio di un tempo pieno dedicato al meno ingombrante ruolo di magnifico rettore dell’Alma, la Scuola internazionale di cucina italiana di Colorno (Parma). Invece Gualtiero Marchesi rilancia, con un progetto italiano corrispondente al Mof (Meilleur Ouvrier de France), storica istituzione che premia i migliori artigiani transalpini, e con la nuova avventura di Castel Conturbia, un relais con ristorante e 30 camere ricavato da un castello dell’XI secolo ad Agrate Conturbia, vicino al Lago Maggiore, che aprirà a fine anno. Per il menu è già pronto il sottotitolo provocatorio: «Gualtiero Marchesi, la cucina del buon senso».
Proprio lei, il maestro della cucina creativa, parla di «buon senso»?
La cucina dev’essere innanzitutto salute, la presentazione deve essere semplice per esaltare la qualità della materia prima. Come nel mio «Kiev di Kiev», il pollo alla Kiev della cucina classica reinterpretato.
A chi affiderà l’esecuzione di questa nuova cucina?
Non nuova, ma ancora più essenziale. A Gianluca Branca, il mio cuoco a Erbusco: l’ho designato come mio successore per l’esecuzione impeccabile delle mie creazioni.
Da cosa capisce se un cuoco ha la stoffa per diventare bravo?
Dal fatto che vede, anziché limitarsi a guardare. Deve capire le tecniche, non imparare a copiare. Deve capire perché ci vuole un rapporto preciso tra il fuoco, il tipo e il volume dell’ingrediente, lo spessore e il diametro della padella. È quello che faccio con gli studenti all’Alma, la scuola internazionale di cucina italiana: li stimolo a pensare.
È tempo di cuochi star, ma che cosa serve per fare il salto da bravo a grande cuoco?
Ci vuole il «palato assoluto», che è poi la stessa cosa dell’orecchio assoluto in musica: ciò che di un sapore, un colore, una consistenza sa cogliere le sfumature più sottili.
E per lei chi ha il «palato assoluto»?
Paolo Lopriore, per me un artista della cucina incompreso. Traduce gli ingredienti in idee che mi emozionano. L’altro giorno al Grand hotel di Como, dove tra qualche mese gestirà un ristorante a sua misura, ci ha presentato come appetizer un foglio di carta bianca con l’impronta di un dito e una striscia di polvere di zucca. Come a dire: mangiatela così. Geniale.
È vero che Andrea Berton, che è stato suo chef per molti anni, poi ha portato il Trussardi alla Scala alle due stelle Michelin e adesso ha aperto il suo ristorante, sempre a Milano, è un sergente di ferro con i suoi cuochi?
Era un ragazzo preciso, stringato, inappuntabile: sorridente e cordiale, ma solo finché non entrava in cucina. Adesso che è tutto a vista non potrebbe più farlo.
Lei, comunque, come fa quando riprende qualcuno?
Gli vado vicino e gli chiedo: ma tu perché vuoi fare il cuoco? Ho preso da mia madre Cristina, che comandava con dolce fermezza. Io ho sempre avuto un bel carattere.
Veramente il suo soprannome «divin Marchesi » sottintende una dose di sadismo...
Ma no! Prenda Ernst Knam, il pasticcere star di Bake off sul canale tv Real time: è un eccellente professionista, col quale abbiamo avuto una controversia sulla paternità della ricetta di un «doppio» panettone. Dovevo tacere? Però pochi anni dopo l’ho portato con me a Hong Kong e all’incontro con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per il mio ottantesimo compleanno.
Tutti i grandi cuochi passano da lei, vivono di luce riflessa e poi partono per altre avventure. Non le dispiace?
Al contrario: i bravi li mando avanti. Mi arrabbio soltanto con chi non è corretto. Come Daniel Canzian, che era cuoco da me al ristorante Marchesino: un veneto, sorridente, che però da un giorno all’altro mi piantò per aprire un ristorante suo, il Daniel, qui a Milano. Senza mettermene a parte in anticipo.
Davide Oldani invece, lombardo, con quella faccia da bravo ragazzo?
Oldani veniva a lavorare da me per imparare anche fuori orario. Ha capito che con le idee e la padronanza tecnica si può fare grande cucina anche con i prodotti più umili. Oggi la cucina dovrebbe essere tutta così. Peccato che adesso lo si veda dappertutto.
A proposito: ecco la copertina del numero di dicembre 2012 di «Gq», dove Carlo Cracco, per anni suo alter ego a Erbusco, comparve con una modella nuda che sosteneva un enorme pesce davanti a lui. Che cosa ne dice?
E il pesce non era neanche il suo (ride, ndr). Resto allibito. Una volta, a una mia osservazione, rispose: «La cucina è sua, ma i cuochi sono miei». In giro c’è mancanza di cultura.
Le piace la sua cucina? Da Carlo Cracco ho mangiato cose divertenti e creative, come la cozza servita in un finto guscio edibile, e come l’insalata russa tra due lamine di zucchero caramellato.
Ma quanto serve la cultura a un cuoco?
Spedisco gli alunni dell’Alma nei musei, alle mostre d’arte, ai concerti. Il bello è il buono: un piatto mal combinato non può essere buono. Quando il pittore Emilio Tadini venne da me la prima volta per mangiare il risotto con la foglia d’oro, rimase sedotto dal contrasto tra il giallo brillante dell’oro e quello profondo dello zafferano. Disse: «È così bello, che dev’essere anche buono».
Che cosa pensa della cucina vegetariana?
Prendiamo Pietro Leeman, lo «chef de cuisine » di Joia, il ristorante di alta cucina vegetariana di Milano: arrivò da me a Milano provenendo dal ristorante di Fredy Girardet, il mago di Crissier, vicino a Losanna: ecco, lui ha un’alta tensione culturale e spirituale. In Estremo Oriente ha assorbito la filosofia della non violenza e l’ha trasferita in piatti di grande forza.
La cucina ha un sesso?
Le donne, è provato, hanno il 25 per cento in più di sensibilità del palato. Ma lavorano a orecchio, tendono al km zero mentale: in Emilia valanghe di tortellini burro e parmigiano; in Toscana tutto annegato nell’olio. E pensare che l’Italia è il Paese con la cucina più «fusion» del mondo: Palermo e Aosta che cos’hanno in comune?
Eppure molti grandi chef francesi appendono il ritratto della mamma nel ristorante perché la ritengono la vera ispiratrice.
Ci sono le eccezioni. Paola Budel, una bellunese bella, rigorosa e determinata, che ha lavorato tre anni da me, è una professionista capace di dirigere tanto le cucine del grand hotel Principe di Savoia, a Milano, quanto una realtà piccola e preziosa come quella del Venissa, sull’isola di Mazzorbo (nella laguna di Venezia, ndr). Mia figlia Paola, in un momento in cui pensava di fare la cuoca, ha lavorato con lei. Poi ha preferito il violino.
Un peccato?
Ha capito di avere l’orecchio assoluto ereditato da mia moglie Antonietta, pianista, cui io devo anche la mia educazione musicale.
Adesso tutti vogliono diventare chef.
Intanto chef non vuole dire niente: si dice cuoco, o semmai chef de cuisine, cioè capocuoco. Comunque all’Alma ho fatto inserire due mesi di tecniche di base perché c’è gente convinta di saper cucinare perché fa il cacio e pepe. A chi vuole diventare professionista consiglio di cominciare dalla pasticceria, dove si impara la precisione dei pesi e delle cotture.
Tra gli chef de cuisine oggi famosi è passato da lei qualcuno fuori ordinanza?
Fulvio Pierangelini è venuto a fare uno stage nella mia cucina senza una formazione professionale. Molti anni dopo, per andare a mangiare da lui al Gambero Rosso di San Vincenzo con Alain Ducasse e Paul Bocuse, abbiamo chiesto l’intercessione degli amici; fuori dal locale era appeso un cartello che diceva: «Qui non entrano giornalisti e cuochi».
Ricordi particolari?
Silvano Prada, l’esecutore millimetrico che ho portato alla mia scuola di Lucerna; Antonio Ghilardi che, appena arrivato da me da Le Cirque di New York, ha eseguito tutte le salse classiche e ha voluto che le provassi; Paola Budel che, partendo per un nuovo incarico, ha ringraziato a uno a uno tutti i compagni di lavoro. Ricordo quelli che dentro di me hanno lasciato qualcosa.
Anche lei è stato un alunno.
Io sono sempre stato un alunno. Lo ero quando andavo con mio padre a steccare i prosciutti in Emilia, quando nella trattoria di famiglia arrivavano zii e cugini cuochi nei grand hotel internazionali e li vedevo usare tecniche di alta cucina anche per fare cose semplici. Lo ero quando di notte leggevo Auguste Escoffier; quando ho studiato pianoforte per tre anni e quando, con i miei figli ancora piccoli, sono partito per Roanne, nella Loira francese, per lavorare dai Troisgros. Come Einstein, «propendo di più per l’apprendimento che per l’insegnamento».