Stefano Cingolani, Panorama 27/2/2014, 27 febbraio 2014
MINISTRO SENZA PORTAFOGLIO
Proprio come certe storie d’amore destinate a durare nel tempo, tutto comincia con un sospetto. È il dicembre 2012 e, in vista delle primarie del Pd, Carlo De Benedetti liquida in modo sprezzante Matteo Renzi annunciando che voterà per Pier Luigi Bersani perché «di Berlusconi ce n’è bastato uno». Insomma, sul sindaco di Firenze la pensa come Eugenio Scalfari. Il fondatore della Repubblica non cambierà idea; l’Ingegnere, invece, con l’insostenibile leggerezza di chi guarda agli interessi non solo alle idee, cambia, eccome. Tanto che la tessera numero uno del Partito democratico al tempo di Walter Veltroni, si trasforma nell’azionista di riferimento del governo Renzi. Anzi, ancora di più, vuol diventare il ministro ombra, sia pur senza portafoglio.
Il vecchio finanziere e il giovane politico si annusano a distanza, finché nella primavera del 2013 non avviene il disgelo. Incontri privati, due chiacchiere nell’appartamento romano di via Monserrato 61 (dove nel 1993 l’Ingegnere trascorse gli arresti domiciliari), poi il 6 giugno il gesto eclatante: De Benedetti si reca a Palazzo Vecchio nello studio del primo cittadino, ufficialmente per presentargli il convegno «Repubblica delle idee». Da allora comincia un’accorta escalation di sostegni pubblici. L’editore dichiara che Enrico Letta e Renzi possono convivere, poi in novembre, alla vigilia delle primarie, rivela che voterà per Matteo, con piena convinzione. Intanto, la Repubblica e l’Espresso alzano il tiro sul governo fino alla bordata del 21 gennaio quando il settimanale del gruppo esce con un sondaggio dell’istituto Demopolis secondo il quale solo 3 italiani su 10 promuovono Letta. La campana è suonata mentre, dalle colonne del quotidiano, Ezio Mauro prepara i suoi lettori all’ennesimo cambio di cavallo.
Come mai? Che cosa vuole l’Ingegnere? La spiegazione più semplice è che, giunto alla soglia degli ottant’anni, coltivi soprattutto l’ambizione di fare il burattinaio della politica italiana. Ha già tirato i fili più volte: con Enrico Berlinguer e Ciriaco De Mita contro Bettino Craxi, poi con Achille Occhetto contro il Caf (Craxi, Andreotti e Forlani). Tangentopoli travolge anche lui: confessa di avere pagato 10 miliardi di lire per piazzare macchine Olivetti alle Poste. Passata la bufera, appoggia Carlo Azeglio Ciampi nel 1994 (l’ex governatore della Banca d’Italia firmerà la licenza per Omnitel poche ora prima di lasciare il ministero del Tesoro) e Romano Prodi nel 1996 contro l’arcinemico Silvio Berlusconi. Un duello dal sapore conradiano che dura da oltre trent’anni.
La voglia di restare protagonista è un dato di fatto, ma questa volta c’è molto di più perché è in gioco il destino stesso della famiglia. Energia, cliniche, editoria persino: l’intero impero economico si sta sfarinando. Dunque, per De Benedetti diventa fondamentale esercitare al massimo la sua influenza sulla sinistra in modo da trasformarla in una vera «macchina da guerra». Ci aveva provato nel 2001 puntando su Francesco Rutelli e gli era andata male. Insiste con Veltroni e con Bersani. Scommesse perdenti. Ma Renzi è un’altra cosa. E a Cuperlo non resta che denunciare di nuovo «l’opa sul partito».
Il Pd, tuttavia, non basta. L’Ingegnere sa che deve incidere anche nel centrodestra. Non è facile, per lui è come entrare nel «campo degli infedeli». Finché non gli arriva un aiuto sperato. L’uomo chiave si chiama Francesco Dini, figlio dell’architetto Claudio che ha progettato Milano 2 per Berlusconi e, come presidente della Metropolitana milanese, finirà nella trappola di Mani pulite. Dini figlio lavora in Fininvest fino al 1999 quando l’Ingegnere gli apre le porte della Cir, la sua nave ammiraglia. Come capo degli affari generali, diventa il fidato braccio destro, vicino a tal punto da suscitare le perplessità di Rodolfo, l’erede ufficiale dell’impero economico (editoria esclusa).
Il capolavoro politico avviene con il voltafaccia di Gianfranco Fini e l’aggancio è Italo Bocchino, vecchio amico di Dini. La rottura nell’autunno 2010 rischia di far cadere il governo, però Berlusconi para il colpo. Fini finisce nel dimenticatoio, ma l’obiettivo resta lo stesso: il dopo Berlusconi. Così, le attenzioni si spostano verso Angelino Alfano. Dini tiene aperto un corridoio umanitario con il nemico e sull’uscio trova il delfino designato che parla con tutti per conto del Cavaliere. Tra il maggio e il giugno 2013, scoppia il caso di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, sequestrata a Roma e rispedita in patria. La Repubblica mette sotto tiro il ministro dell’Interno. Berlusconi lo sostiene, ma Alfano si sente più che mai sulla graticola. E il grido di dolore non resta inascoltato. Quando tra ottobre e novembre matura la rottura, anche il quotidiano diretto da Ezio Mauro denuncia «la macchina del fango» contro il transfuga. La tattica è sempre la stessa, quella che ha meritato al lobbista l’appellativo di «profumiere»: far sentire l’odore dolce della benevolenza. «Ne discuto con l’Ingegnere, l’Ingegnere mi ha detto…». Il balletto dei ministri in pectore per il governo Renzi è davvero indicativo. Guido Tabellini, Tito Boeri, Lucrezia Reichlin, Luca di Montezemolo: nessuna delle figurine messe sul tavolo ha trovato la sua casella. Nemmeno Fabrizio Barca il quale ha raccontato al finto Niki Vendola della Zanzara le pressioni ricevute da De Benedetti, anche se con lui ha parlato soltanto «un giornalista di Repubblica».
La delusione si trasforma in ira per la scelta di Federica Guidi come ministro dello Sviluppo. Figlia di Guidalberto, patron della Ducati elettronica, sarebbe in conflitto d’interesse perché l’azienda (dalle cui cariche si è dimessa) fa affari con la pubblica amministrazione. Ma la vera colpa è di essere andata ad Arcore a cena dal Cavaliere. Perché ci sono cene e cene. Quelle dell’Ingegnere sono di quattro tipi: ufficiali nella sede romana sulla Cristoforo Colombo, strategiche nel quartier generale milanese in via Ciovassino 1, conviviali in via Monserrato 61 a due passati da palazzo Farnese, e riservatissime a Sankt Moritz, magari in una stube svizzera come quella del luglio 2011 con un Mario Monti in ambasce per la sua irresistibile ascesa verso Palazzo Chigi.
L’attacco alla Guidi appare come un avvertimento: nel ministero di via Veneto, tra i 161 dossier sulle crisi aziendali, il più scottante non riguarda la multinazionale svedese Electrolux, ma la società energetica dell’Ingegnere, la Sorgenia che, se nulla cambia, ha solo un mese di vita. Honi soit qui mal y pense c’è scritto sulla regale giarrettiera d’Inghilterra. Che l’onta cada su chi fa cattivi pensieri, ma di cose da chiedere al nuovo governo, De Benedetti ne ha davvero tante.
I debiti della Sorgenia sono arrivati a 1 miliardo e 860 milioni, bisogna rientrare di almeno 600 milioni e le banche hanno detto basta. Il negoziato è durissimo, lungo, gli incontri si succedono senza trovare una soluzione. La società è vittima della recessione e delle proprie scelte: ha puntato sulle centrali a gas che oggi lavorano a un terzo della loro capacità. Nel settembre scorso ha svalutato per 287,2 milioni. Il socio straniero, il gruppo austriaco Verbund, ha alzato bandiera bianca, portando a zero la sua partecipazione del 46 per cento. La Cir è disposta a spendere soltanto 100 milioni e non rilascia garanzie per la sua controllata. È vero, in cassa oggi ha 319 milioni netti, risultato dei 492 lordi incassati dalla Fininvest per la causa sul lodo Mondadori, ma lì restano per evitare che la holding finisca in rosso fisso. Anche perché incombe un vecchio contenzioso con il fisco al quale il gruppo deve versare 225 milioni per la mancata dichiarazione di plusvalenze quando nel 1991 è stata quotata La Repubblica. In più la morsa dei magistrati si stringe tra le accuse all’Olivetti per l’amianto e alla Tirreno Power per il carbone.
A questo punto, la speranza è che arrivi un intervento esterno. Di che tipo? C’è la moral suasion sulle banche, a cominciare dal Monte dei Paschi guidato da Alessandro Profumo, un banchiere certo non ostile. Il Mps ha ben 600 milioni di euro incagliati nella compagnia elettrica e spunta l’ipotesi di convertire i prestiti in titoli di proprietà. Solo che l’istituto sopravvive grazie a un finanziamento pubblico di 3 miliardi e mezzo di euro, i Monti bonds, da restituire l’anno prossimo. Che senso ha accollarsi un’azienda decotta? Certo, Renzi nel suo discorso ha fatto accenno all’energia e a un piano per le fonti rinnovabili. Parole dolci come il miele per Rodolfo De Benedetti e l’Ingegnere, ma sono solo parole. Circola, poi, una soluzione di sistema (come si dice quando si scaricano sulle spalle dei contribuenti i guai degli imprenditori privati): collocare in una società ad hoc l’eccesso di produzione, in altri termini le centrali che sarebbero da chiudere. Una sorta di nuova Egam (Ente gestione attività minerarie) come il carrozzone che nel 1971 liberò Montedison dalle miniere con i soldi degli italiani. Con un debito da 2 mila miliardi, è impensabile che lo Stato si carichi di altri debiti privati.
Gli aiuti pubblici sono in ballo anche nell’editoria. Il gruppo Espresso è in stato di crisi e La Repubblica ha chiesto l’uso degli ammortizzatori sociali per 81 giornalisti. L’Ingegnere punta molto sul web, con il quale pensa di compensare la caduta nella carta stampata. E ha sostenuto apertamente l’introduzione di una tassa alla quale assoggettare anche Google, Facebook e Amazon. Beppe Grillo non s’è fatto sfuggire l’occasione: «È stata inventata per De Benedetti, il vero padrone del Pd». Renzi si è messo di traverso e ne è uscito un compromesso.
Nella legge di stabilità è entrato, invece, un emendamento che risarcisce le centrali elettriche non utilizzate: alla sola Sorgenia potrebbero arrivare fino a 100 milioni. È passato fuori tempo massimo con il voto del Pd e del Nuovo centrodestra di Alfano. Il Movimento 5 Stelle s’è scatenato contro i lobbisti come Roberta Romiti assistente di Dini che entrava alla Camera grazie a Chiara Moroni, figlia di Sergio, il deputato socialista suicidatosi durante l’inchiesta Tangentopoli, fuoriuscita dal Pdl per approdare a Futuro e libertà, amica sia di Bocchino sia di Dini.
De Benedetti dice che lui non gestisce più niente, dunque non gli si possono imputare pressioni. Ha lasciato tutto ai figli Rodolfo, Marco ed Edoardo nel marzo 2012. Il gruppo è strutturato a cascata con in cima un’accomandita per azioni, la Carlo De Benedetti & figli, la quale possiede Cofide che ha il 45,9 per cento di Cir e da qui si diramano L’Espresso, Sorgenia, Kos (sanità). All’Ingegnere resta in mano la cassaforte Romed non quotata in borsa, che viene usata per le proprie operazioni finanziarie. Fino al maggio 2015 è lui amministratore unico, carica per la quale percepisce 2,5 milioni di euro l’anno. È una pensione dorata, ma chi può mai pensare che possa stare ai giardinetti? Renzi se ne è già accorto. Secondo una fonte a lui vicina, i due si usano a vicenda, è un patto che viene rinegoziato di volta in volta. Sarà. Intanto, il rottamatore è già finito sotto tutela.