Franco Recanatesi, Prima Comunicazione 2/2014, 27 febbraio 2014
INTERVISTA A CLAUDIO CERASA
Prima Comunicazione, febbraio 2014
Ha l’aspetto di uno studente un po’ secchione, Claudio Cerasa, faccia pulita e ingannatrice che non rivela i suoi 32 anni, capelli corti, occhiali tondi con montatura nera, un’ombra di barba. Poi quel piercing sulla punta dell’orecchio sinistro ti mette in sospetto e accendendo il computer sui suoi profili cambi definitivamente idea.
Su Facebook trucca Renzi con i baffi che si liscia soddisfatto dopo l’incontro del 10 febbraio scorso con Napolitano. Su Twitter e sul suo blog Cerazade (sottotitolo: Tè politico) si presenta in versione Che Guevara, barba folta e berretto con visiera, ritratto da Emanuele Fucecchi. Cinguettii e annotazioni sempre puntuali e graffianti: un florilegio dei giudizi al curaro di Casini contro Berlusconi prima del nuovo flirt, un calcio allo scoop-bufala di Alan Friedman su Napolitano, uno stupidario su Nichi Vendola, la cronaca del match Letta-Renzi raccontato con lo stile che preferisce, quello battente ed essenziale di una partita di calcio. Usa i social come tutti i tecno-giornalisti della sua generazione, forse anche di più. Non so dove trovi il tempo, ma tutto quello che leggeremo domani a sua firma potete saperlo oggi in poche righe, anche una sola, come avviso ai naviganti.
Immagino che suo padre strabuzzerà gli occhi. Giuseppe Cerasa è un giornalista sessantenne sbarcato a Roma nel 1988 per ficcarsi nella redazione di Repubblica e non uscirne se non per guadagnare il letto di casa. Un capocronista con i fiocchi, culo di pietra e fiuto volpino, oggi capo storico della cronaca romana. Si era fatto le ossa a Palermo come corrispondente del giovane giornale di Scalfari assieme ad Attilio Bolzoni. Un tandem che collezionava scoop (veri, non alla Friedman) facendo piangere gli avversari, fra i quali fior di giornalisti come Felice Cavallaro e Adriano Baglivo del Corriere della Sera, Francesco Santini e Giuseppe Zaccaria della Stampa, Antonio Tajani del Giornale. Anni Settanta-Ottanta, quelli della guerra senza quartiere tra le cosche mafiose e della faticosa tela tessuta dai magistrati coraggiosi del pool, Falcone, Borsellino, Ayala, Caponnetto.
Volavo spesso in Sicilia, a raccontare con l’aiuto dei due corrispondenti il fronte palermitano, e non di rado la sera venivo accolto in casa Cerasa, davanti all’Ucciardone, dove la signora Anna Maria si esprimeva superbamente nella sua arte culinaria: pasta con le sarde, involtini di pesce spada, caponata di melanzane, cannoli.
Attorno a questa tavola di Bengodi sgambettava un frugoletto che avrà avuto tre o quattro anni, già allora discreto, mai petulante come quasi tutti i suoi coetanei. Giocava e rideva con noi fino alle 9 poi dava educatamente la buonanotte e filava a letto senza frignare.
Quando il piccolo Claudio lasciò Palermo per cominciare la sua vita romana aveva sei anni e alle sue spalle ricordi troppo cupi per un bambino di quella età. I racconti del padre, le sirene che squarciavano l’aria, i telegiornali che grondavano sangue quasi ogni sera. Nelle orecchie ha ancora gli strilloni che vendevano i giornali per strada gridando «Sparatine! Ammazzatine!». Ora dice che non ha perduto l’orgoglio palermitano («Siciliano, tifoso dell’Inter e giornalista del Foglio», si definisce su Twitter), ma che l’avere vissuto altrove è stata una fortuna. Da quando non ha più i nonni, in Sicilia ci torna raramente, qualche volta va alle Eolie o alle Egadi in vacanza con la famiglia.
Abitando nel quartiere Prati, ha svolto ginnasio e liceo al Mamiani, storico istituto romano della borghesia radicalchic sinistrorsa e progressista, dove sul libretto delle giustificazioni non c’è scritto “madre” e “padre” ma “genitore 1” e “genitore 2” per la salvaguardia delle coppie gay.
All’università La Sapienza approdò con idee ben precise in testa, che tendevano sì a sinistra ma soprattutto poggiavano su due piedistalli: garantismo e democrazia, cioè rispetto e piena espressione di ogni posizione. Mentre studiava Scienze della comunicazione cercò di trasferire questi principi in un’impresa gigantesca ma che coronava un sogno coltivato probabilmente fin dai primi vagiti, considerato il padre, il suo mestiere e le sue frequentazioni, le pile di giornali sparse ovunque in casa.
Sogno che un carattere energico e ambizioso come il suo identificava non nello scrivere per un giornale, ma fare un giornale. Raccolse un’altra decina di improvvisati giornalisti come lui e varò Comuniversity, che qualcuno scambiò per “università comunista”, ma che nelle intenzioni significava invece “comune universitaria”. Periodicità variabile tra i 45 e i 60 giorni, carta super patinata, 4mila copie, 16 pagine, free press. I 950 euro di costo a numero erano coperti dalla pubblicità. Il giornale trattava dei problemi universitari ma anche di politica. Con un occhio benevolo verso la sinistra, ma un coro di voci variegato.
Per Claudio non era un debutto vero e proprio. A 14 anni, costretto a casa da un’operazione di appendicite, ingannava il tempo guardando in tivù le Olimpiadi di Atlanta, suonando il violino e scrivendo. Di tutto. Buttò giù, fra gli altri, un racconto sull’orchestra di Chiusa Sclafani, il paese natale di papà Giuseppe, celebre per le sue dolcissime patate, tremila anime su una collina alta 600 metri, distante circa 80 chilometri da Palermo, che prende il nome dal conte Matteo Sclafani, il suo fondatore nel Trecento. C’era stato pochi mesi prima in vacanza e, appassionato com’era di musica, quella banda, i suoi componenti, gli spartiti che suonava lo avevano folgorato. Grazie alle amicizie del padre, l’articolo venne pubblicato dal mensile Palermo con il titolo “Si piantano patate, crescono musicisti”. Il ritaglio appare tuttora nella ex camera di Claudio in casa dei genitori.
Fu comunque Comuniversity a lanciare in orbita il giovane Cerasa. Il giornale capitò in mano a Pietro Calabrese, amico di famiglia, appena nominato direttore di Capital, il quale lo apprezzò a tal punto che a 19 anni Claudio entrò nella schiera dei collaboratori del settimanale. Vi rimase per tre anni, anche sotto la direzione di Giovanni Iozzia. Contratto? Neanche a parlarne, sempre collaboratore molto esterno.
Nel 2004, a 22 anni, la prima svolta. Calabrese lo chiama alla Gazzetta dello Sport, redazione romana. Claudio risponde entusiasta. Lo sport è la sua passione. Gioca a calcio (si definisce «terzinaccio dai piedi quadrati»), gioca a tennis («pallettaro disumano»), non si perde in tivù una sola partita dell’Inter di cui è diventato tifoso da quando il fratello di un compagno di scuola elementare gli regalò una divisa completa della squadra nerazzurra. Frequenta la redazione romana, si accaparra tutto ciò che per le grandi firme è mangime per i polli: dal rugby femminile al nuoto, dall’atletica al canottaggio, la Lazio e la Roma Primavera. Ma va a caccia e fiuta l’occasione come un cane da tartufi. Alla vigilia di un derby quel sesto senso che distingue il giornalista da un tranviere lo spinge al circolo Due Ponti dove è in programma un torneo di calciotto al quale partecipano giocatori ed ex giocatori di larga popolarità. In campo c’è anche Roberto Mancini, allenatore della Lazio, che ama le interviste come Berlusconi le aule di tribunale. Ma Cerasa, con la sua faccia da bravo ragazzo e un pizzico di ruffianeria, riesce nell’impresa. Chiama emozionato il capo servizio Franz Lajacona, il quale ribatte «impossibile, Mancini non dà interviste».
Va al giornale, scrive, il capo della redazione Ruggiero Palombo gira il pezzo a Milano. La firma di Claudio Cerasa compare per la prima volta sulle pagine nazionali. E il contratto? Non è il momento, si vedrà.
Nel frattempo, Calabrese va a dirigere Panorama e il suo figlioccio debutta anche sul settimanale filoberlusconiano.
Una premonizione? 2007: a Claudio giunge voce che Il Foglio cerca stagisti. Proprio Il Foglio che l’aspirante giornalista palermitano ha eletto sin dal debutto, un anno prima, sua prima lettura, il top dei quotidiani. Si presenta, viene arruolato. Come deskista con licenza di scrivere di sport, cosa che accade con minore frequenza di una crisi di governo. Ma gli si schiude quel mondo che da lettore aveva immaginato: riunioni aperte anche ai fattorini, pari dignità fra redattori e stagisti, dialogo quotidiano con le teste pensanti. A Ferrara piace quel ragazzo che al giornale ha piantato le tende e che discute di politica e di calcio con la stessa passione e competenza. Gli regala un contratto a progetto, lo spedisce a caccia di scoop. A Rignano Claudio si butta: dal punto di vista giudiziario la condanna dei maestri accusati di pedofilia non esiste. E vince. Ferrara decide che il “picciotto” è maturo per essere scaraventato nell’arena di Montecitorio. E mentre il gran direttore s’impegna nella campagna per il partito all’americana, l’infaticabile Claudio si appiccica al sedere dei piddini e in particolare di Walter Veltroni che piace assai anche a Giuliano. Quando Veltroni si candida come premier alle elezioni del 2008 come leader di una coalizione Pd-Italia dei Valori, Cerasa centra il suo secondo bingo dopo quello con Mancini al campo di calciotto. Intervista Veltroni raccogliendo in esclusiva una sua decisiva dichiarazione: «Corro da solo». Encomio solenne e prima pagina. Titolo: Il manifesto di W.
Fu allora che Claudio cominciò a scalare posizioni. L’assunzione? C’è tempo, passeranno altri due anni. Oggi è in prima fila fra i trentenni d’assalto della carta stampata, sposato da un anno e con un bambino di due («generazione touch: Leonardo cerca di far scorrere con un dito anche le immagini del televisore»), cercato dai talk televisivi, temutissimo dai colleghi che si occupano del Pd.
Il figlio di uno dei capi di Repubblica tra le firme di punta e ingranaggio cardine di un quotidiano berlusconiano.
«Ti sbagli. Il Foglio è un quotidiano libero che racconta i fatti, dei fatti cerca le radici, con i fatti costruisce scenari. Io mi occupo del coordinamento dei settori, sono a contatto tutti i giorni con Giuliano e con le teste pensanti del giornale, ho votato sempre a sinistra e ti dico che non cambierei questo giornale – di nicchia, lo so – con nessun altro al mondo».
Giuliano Ferrara non ha mai nascosto la sua fede, no, appartenenza, forse oggi è meglio dire simpatia berlusconiana.
«Pochi hanno criticato Berlusconi con la durezza del Foglio. Spesso a firma dell’elefantino. E comunque se Ferrara la pensa in un certo modo non siamo obbligati a uniformarci. È l’ultima cosa che Giuliano chiede ai suoi redattori».
Un modello di democrazia.
«Sicuramente un modello di direttore. Lascia alla redazione ampio margine di espressione e conserva la passione per fare il giornale e insegnare il mestiere alla sua truppa».
Come vengono reclutati i redattori al Foglio?
«Per un buon 70%, attraverso gli stage. Per spuntarla sono indispensabili due qualità: dedizione e competenza. Alcuni, pochi, vengono arruolati dall’esterno da Giuliano, come ad esempio Paolo Rodari e Francesco Cundari. No, a nessuno viene chiesto di manifestare la propria fede politica. Siamo una redazione giovane, 30 anni o poco più di media, se si eccettuano i dirigenti navigati. E per la maggior parte votiamo a sinistra».
Come nasce un numero del Foglio?
«Nel momento più bello della giornata, la riunione delle 11. Seduti ovunque attorno a un tavolone pieno di computer e di scartoffie. Giuliano espone le proprie idee, poi parlano gli altri, tutti gli altri. Una sorta di concerto jazz, un insieme di suoni che finiranno per comporre il giornale».
Tuo padre ti avrà parlato delle celebri riunioni scalfariane a Repubblica. Un po’, a quanto mi dici, le vostre le assomigliano. Qualche volta, alla fine, Scalfari dava la linea.
«Sì, credo che abbiano delle somiglianze, ma Il Foglio è un giornale anarchico. Non ci sono gerarchie, io sono caporedattore ma conto come gli altri, tranne direttore e i due vice, naturalmente. E ognuno scrive ciò che vuole, s’intende dopo avere avuto un confronto col direttore. Giuliano ha le sue idee, fa le sue battaglie, anche filoberlusconiane, ma non vuole cervelli all’ammasso. Che poi su alcuni temi anche io che voto Pd non so dargli torto».
Per esempio?
«La giustizia. Berlusconi ha molte ragioni per credere di essere perseguitato dai giudici. E andando a braccetto con la magistratura, la sinistra gli offre numerosi alibi per alzare la voce. Magistrati che fanno politica, magistrati nelle amministrazioni comunali».
È un discorso complesso che adesso porterebbe via troppo spazio. Io potrei controbattere con le condanne che Berlusconi ha subìto, le sue violente campagne eversive contro le toghe, ma torniamo a noi. Anzi a te. Alla tua cronaca minuziosa su ogni movimento in casa Pd.
«Minuziosa? Seguo il Pd da quasi tre anni in modo maniacale, quasi autistico. Mi piaceva il progetto, una cosa nuova, con tante storie da raccontare, tante battaglie interne. Un po’ come nello sport, mille derby quotidiani».
Segui Matteo Renzi dagli albori della sua carriera politica. Lo conoscerai meglio di tua moglie. Tant’è che spesso hai anticipato gli altri giornali sulle sue mosse. Sul Foglio del 6 gennaio, per esempio, anticipi di una settimana la sua candidatura alla presidenza del Consiglio con un articolo dal titolo “I potenti che spingono Renzi a rottamare Letta”, dove nomini una quindicina fra banchieri, imprenditori e manager fra i più celebrati che soffiano sulla vela del nuovo messia fiorentino: da Mario Greco ad Alberto Nagel, da Giorgio Squinzi a Diego Della Valle, da Carlo De Benedetti a Marco Tronchetti Provera, da Fabrizio Palenzona a Francesco Gaetano Caltagirone.
«Cominciai a seguire Renzi quand’era presidente della Provincia, un ragazzino spettinato con la pancetta, però si capiva che aveva un... un...».
Un passo in più?
«Un quid. E una irrefrenabile pulsione, fin da allora, di piacere a tutti. Come Veltroni. In questo assai vicini a Berlusconi».
Questa non te la perdoneranno. Sei diventato amico di Renzi?
«Non ho rapporti di amicizia con i politici. Anche per il compito di coordinamento del giornale, non frequento assiduamente la Camera. Lavoro molto dalla redazione. Con il telefono, Twitter e i maggiori social. E il mio blog: alcuni articoli nascono da post sul mio blog».
Dalle informazioni che hai non si direbbe che non esci mai dalla tana.
«Esco poco, non mai. I personaggi di cui scrivo li incontro, ma in maniera informale».
Confidenziale?
«Informale».
Credi che Renzi sarà capace di rivoltare l’Italia?
«Renzi era l’uomo giusto per guidare il Pd, potrebbe esserlo anche per guidare il governo. Da lui mi aspetto rapidità e decisionismo che sono mancati a Enrico Letta. A forza di piccoli passi abbiamo perso dieci mesi».
Ti è piaciuto il cheek to cheek di Matteo con Berlusconi?
«Renzi ha fatto benissimo, aprendo le porte a Berlusconi le ha aperte anche ai suoi elettori».
Anche il tuo direttore ha apprezzato. A sinistra, però, molti hanno storto il naso.
«La storia insegna che più un leader piace a sinistra meno riscuote appeal nel resto del Paese. Non dimentichiamo che Renzi ha raccolto alle primarie un milione e mezzo di voti, gliene mancano 11 milioni per vincere le elezioni».
Ami più la politica o l’Inter?
«Tifare Inter aiuta a capire la sinistra italiana: la stessa idea di essere i più forti senza quasi mai riuscirci, entrambi danno il meglio nel momento in cui non vincono».
Esame di giornalismo. Quali sono le tue fonti di informazione?
«I principali giornali, Twitter. I tg non li guardo, solo un po’ quelli di Sky la domenica. Mi servono relativamente. Noi del Foglio dobbiamo dare ai nostri lettori cose che altri non hanno: storie, provocazioni, scenari».
Giornalisti di riferimento?
«Tanti. Non chiedermi di fare nomi, seguo tutti i giornalisti politici».
In tivù, però, una volta ti ho sentito carezzare Scalfari.
«Beh, come si fa a non leggere Scalfari. Mi piace confrontarmi con quello che scrive. E il fatto che mi consideri un interlocutore – tre volte ultimamente ha citato i miei articoli nel suo fondo domenicale – ha solleticato il mio orgoglio».
Vita lunga o corta per il giornale cartaceo?
«Così come sono non hanno un gran futuro. Il giornale che funziona è quello a cui il lettore strappa le pagine per conservare un articolo. Il quotidiano di notizie non può sostenere il confronto con un sito h 24. Il modello che può resistere è un Foglio più ampio, fatto di tante nicchie e di pezzi lunghi che raccontano storie con bella scrittura. Quelli che fanno venire voglia di staccare la pagina. Un giornale che trasmette idee, che fa riflettere. Come dice Giuliano, un giornale che deve piacere prima di tutti a chi lo fa».
Franco Recanatesi