Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 27/2/2014, 27 febbraio 2014
TURCHIA, ERDOGAN SOTTO ASSEDIO CERCA IL SOSTEGNO DEI FEDELISSIMI
La grandeur di Ankara e quella del nuovo "sultano" Tayyep Erdogan sembravano inarrestabili. Un’ascesa costante, quasi senza scosse, incontrastata, che rende adesso la parabola discendente ancora più vertiginosa. Il premier trionfava alle elezioni con quasi il 50% dei voti e in un decennio il leader dell’Akp aveva portato la Turchia tra le prime 16 potenze dell’economia mondiale. Il timido e schivo ragazzo di Kasimpasa, quartiere popolare di Istanbul dove è ancora adorato come un dio, era diventato il padrone del Paese e aspirava a proporsi come il nuovo modello di campione musulmano: conservatore nei costumi, liberale in economia, avversario dei tradizionali autocrati mediorientali e allo stesso tempo portabandiera dei fasti neo-ottomani di un Paese affluente.
Ora di Erdogan stiamo vedendo un nuovo volto, che nei tratti, negli slogan, nei fatti, lo fanno somigliare sempre di più ai raìs che un tempo mostrava di detestare.
Erdogan appare oggi, dopo Gezi Park e la Tangentopoli turca, come un uomo sotto assedio, travolto dagli scandali, che si fida soltanto di un gruppo di fedelissimi, uno di questi è Hakan Fidan, il capo dei servizi, il suo vero braccio destro, in rotta di collisione con polizia e magistratura, perché il vicepremier Ali Babacan, assai apprezzato anche all’estero, sembra emarginato dalla cerchia più ristretta della corte. Quando gli abbiamo chiesto come mai la Turchia avesse rinunciato all’Expo di Milano è apparso sorpreso, quasi smarrito: Erdogan ha deciso da solo, senza consultare lui e neppure Abdullah Gul che si era sbilanciato con il presidente Giorgio Napolitano. E ora siamo a imbarazzanti scambi di lettere diplomatiche con uno dei maggiori partner economici dell’Italia.
Eppure i sondaggi danno ancora l’Akp in testa alle prossime elezioni municipali del 30 marzo che Erdogan stesso ha definito un referendum: «Sarà la nostra guerra di indipendenza dalle forze occulte», ha dichiarato riferendosi alla confraternita islamica Cemaat di Fethullah Gulen, l’imam in esilio in America ed ex alleato che il premier accusa di avere impiantato uno stato parallelo infiltrando magistratura e polizia. Ma le ultime intercettazioni telefoniche - la cui autenticità deve essere ancora verificata - in cui ordina all’inetto e chiacchierato figlio Bilal di far sparire decine di milioni di euro sembrano incastrarlo. In tre milioni le hanno ascoltate su Internet, prima che venissero bloccate dalla censura, mentre a Piazza Taksim, nel cuore di Istanbul, l’opposizione è scesa in piazza bruciando migliaia di banconote false e invocando la sua cacciata in una sorta di carnevale alla turca.
Ma cosa c’è davvero di nuovo e di preoccupante? «L’unica alternativa che ha il primo ministro per sopravvivere politicamente è diventare sempre più spietato», suggerisce Cengiz Candar, forse il più celebre e stimato dei giornalisti turchi che in 40 anni di carriera è sopravvissuto al colpo di Stato del generale Kenan Evren e a tre o quattro guerre mediorientali. Candar si riferisce alla legge che censura Internet, adottata con alcuni emendamenti del presidente Gul ma sottoposta a un’Authority governata da Ahmet Celik, un ex ufficiale dei servizi; alla legge che mette il bavaglio alla magistratura messa sotto il controllo diretto del ministero della Giustizia e a quella che blinda il capo dei servizi Fidan come inamovibile: addio all’indipendenza dei poteri, già in ginocchio dopo le purghe che hanno fatto fuori giudici e poliziotti.
L’ascesa di Hakan Fidan, 45 anni, capo dell’intelligence del Mit e vero numero due della Turchia, ha accompagnato quasi di pari passo la parabola discendente di Erdogan. Quando nel maggio scorso a Washington era insieme a Erdogan nell’incontro con Obama e Kerry, l’ex ambasciatore Usa in Turchia e Iraq James Jeffrey fu esplicito e profetico: «Fidan è la faccia del nuovo Medio Oriente, dobbiamo lavorare con uomini come loro anche se non sono proprio dei nostri amici e non la pensano come noi».