Paolo Conti, Corriere della Sera 27/2/2014, 27 febbraio 2014
MISTERI, MEMORIALI E IL PORTIERE SUICIDA ALLA FINE RIMANE SOLO UNA FOTOGRAFIA
Una ragazza in costume bianco, abbronzata, stesa al sole sulla spiaggia, una posa rilassata. L’icona mediatica del delitto di via Poma è ancora e sempre quell’istantanea di Simonetta Cesaroni. Hanno protestato in tanti, per aver ridotto la vita breve di una ragazza in quel fotogramma così privato, intimo: la famiglia, donne famose, i legali. Ma la memoria collettiva ha sempre avuto la meglio.
Forse perché quello scatto mostra tutta la gioventù e il desiderio di futuro di chi ha vent’anni e l’intera esistenza davanti. Invece c’è da raccontare una storia di sangue e morte. È la sera di martedì 7 agosto 1990, siamo nel cuore del borghesissimo quartiere Prati, trecento metri dalla Rai e da viale Mazzini. Simonetta Cesaroni, 20 anni, figlia di un macchinista della metropolitana e di una casalinga, è al suo ultimo giorno di lavoro prima delle ferie, deve chiudere i conti per una società che ha nella sua clientela anche l’Associazione italiana alberghi della gioventù. È sola nell’ufficio di via Poma 2, complesso di palazzine degli anni Trenta. Lei è al terzo piano della Scala B. Lavora al computer, usa il videotel, il videotex della Sip, uno degli antenati della Rete. Tra le 17.30 e le 18.30 qualcuno suona, entra. Non sapremo mai la sequenza. L’unica certezza è che Simonetta muore trafitta da 29 colpi, probabilmente di un tagliacarte, inferti su tutto il corpo. Su un capezzolo una ferita, forse un morso. Una grande ecchimosi sulla testa. A casa la aspettano, si allarmano. Arriva disperata la sorella Paola accompagnata dal suo fidanzato. Alle 22.30 la polizia apre con le chiavi portate da Peppa Vanacore, moglie del portiere Pietrino. Una scena agghiacciante e, insieme, straniante: qualcuno ha lavato il pavimento e, in parte, il corpo (forse per portarlo via in un secondo momento) e ha «messo ordine»: le scarpe sono allineate lì accanto. Però il corpo è seminudo, ha i calzini, il top e il reggiseno sollevati. Molti indumenti (slip, giacca, i fuseaux blu) sono spariti.
Da quel momento il delitto di via Poma catalizza l’attenzione dell’Italia e si riempie di protagonisti. Il primo interrogato, con i metodi «convincenti» che si usavano ai tempi, è proprio l’ex fidanzato Raniero Busco, titolare di un rapporto né concluso né ripreso. Il giorno prima del delitto avevano avuto un rapporto sessuale, racconterà poi. Alla fine viene lasciato andare, il suo alibi regge e non ha nemmeno una piccolissima ferita da taglio, «incidente» inevitabile a chi accoltella dopo una colluttazione. Il 10 agosto, primo di un’infinita serie di colpi di scena, arriva l’arresto di Pietrino Vanacore, uno dei due portieri dello stabile, chiamato subito dai giornali «occhi di ghiaccio» perché imperturbabile per temperamento. Lo scarcerano dieci giorni dopo ma la sua posizione verrà archiviata solo il 26 aprile 1991.
E poi, davvero succede di tutto. Compare nell’aprile 1992 lo strano personaggio di Roland Voller, austriaco, latitante per le autorità del suo Paese per bancarotta fraudolenta, con legami oscuri con i servizi segreti. Coinvolge Federico Valle, nipote dell’architetto novantenne Cesare Valle che da anni abita proprio in quello stabile. I giornali cavalcano l’ipotesi, il ragazzo è un tipo fragile, anoressico, l’ideale per alimentare mistero e giallo. Valle uscirà di scena il 16 giugno 1993 prosciolto «perché il fatto non sussiste». Nel 1994 girano strani memoriali di anonimi che descrivono un’altra Simonetta, appassionata navigatrice sul Videotel, protagonista di appuntamenti dopo un «aggancio». Si indaga sulle telefonate anonime che riceveva.
Passano anni silenziosi e Claudio Cesaroni, il padre di Simonetta, non si stanca di raggiungere piazzale Clodio per chiedere giustizia per la figlia. Muore il 20 agosto 2005 senza averla avuta. Ma due anni dopo, il 6 settembre 2007, l’ex fidanzato Raniero Busco, ormai marito e padre di famiglia, finisce sul registro degli indagati. E il 3 febbraio 2010 comincia il processo. In questo periodo Busco si rivolge a Vanacore (2 giugno 2009: «Lui che sa non mi aiuta...»). L’ex portiere di via Poma si ritrova alla ribalta. I suoi nervi cedono. Si uccide annegandosi a Torricella, vicino Taranto, il 10 marzo 2010: altri tre giorni e sarebbe stato ascoltato nell’aula bunker di Rebibbia come testimone. Il 26 gennaio 2011, con una sentenza contestatissima, Busco viene condannato a 24 anni di carcere ma resta a piede libero. Il processo di secondo grado ribalta e annulla tutto con un’assoluzione, il 27 aprile 2012. In mezzo a tutto questo, una discussa fiction trasmessa da Canale 5 il 6 dicembre 2011. Ma l’assoluzione definitiva di ieri, no. Quella non è fiction. È la realtà di un delitto senza colpevole.
Paolo Conti