Mario Baudino, La Stampa 27/2/2014, 27 febbraio 2014
RISCOPRIRE IN FILIGRANA IL PIACERE DELLA CARTA
Nel Settecento, i lettori erano molto attenti com’è ovvio a quel che c’era scritto nei libri - e talvolta appassionatamente attenti, fino all’identificazione totale con l’autore -: ma anche alla qualità di ciò che permetteva al testo di essere letto, ovvero la stampa, la carta, la confezione. Uno scritto importante non poteva avere una veste trascurata. In uno dei suoi godibilissimi saggi su questo argomento nel Grande massacro dei gatti, da poco ripubblicato per Adelphi, lo storico americano Robert Darton cita la lettera inviata alla Stn, importante libreria editrice di Ginevra, una piccola Amazon calvinista dei tempi, da un libraio di La Rochelle, cui era stato proposto un caposaldo dell’Illuminismo, il Sistème de la Nature del barone D’Holbac.
Il libraio conosceva bene il proprio mestiere: «So di quattro edizioni - scrive -. La prima viene dall’Olanda, magnifica edizione. La seconda e la terza non differiscono affatto l’una dall’altra. La quarta, di cui vi accludo un foglio, è quanto di peggio si possa trovare, sia per la stampa, che è piena d’errori, sia per la carta, che è detestabile e che non vorrei per trenta soldi». La carta, questa magnifica invenzione arrivata dalla Cina ormai da secoli, non era certo una componente secondaria del libro. Era una condizione imprescindibile. Doveva essere nei limiti del possibile bellissima, immacolata, liscia e resistente.
Quella degli Anni Trenta, ottenuta da cellulosa trattata chimicamente, oggi si sbriciola tra le dita. Quella antica, ottenuta dagli stracci, è ancora intatta. La si otteneva macerando nell’acqua soprattutto lino e canapa. Servivano tanti panni, e fiumi di acque chiare, possibilmente calcaree. Le cartiere erano dei «molini», la loro farina nata dagli abiti dei signori che una volta dismessi venivano passati al personale di servizio e, giù nella scala sociale dell’Ancien Régime, attraverso l’ultimo riuso del popolo diventavano stracci, nutriva la mente.
Fin dall’inizio quei fabbricanti artigiani celavano una decorazione essenziale, allo stesso tempo marchio commerciale ed emblema: una scheggia di raffinatezza, un disegno talvolta elaborato che sollevando il foglio poteva essere contemplato in trasparenza. Era (è) la filigrana. Oggi nei libri in commercio è per lo più vana fatica cercarla, ma ciò non significa che sia da liquidare con un’alzata di spalle come un vecchio arnese pre-industriale; quantomeno perché continua ad essere importantissima, Ad esempio per le banconote.
La filigrana e più in generale l’arte della stampa sono i protagonisti della mostra che si apre domani al Mart di Rovereto: «Vestire il pensiero», ovvero «Belle lettere & bei caratteri», a cura di Luciano Canfora. E’ dedicata alla Tallone, la storica editrice di Alpignano che da ottant’anni, fra Parigi e l’Italia, pubblica edizioni preziose, curatissime, composte interamente a mano e naturalmente su carta di qualità eccelsa. Il fondatore, Alberto Tallone, fu un artista dell’edizione, amico degli scrittori e «filosofo» come i grandi stampatori del Cinquecento.
Il figlio Enrico con la famiglia ne continua l’opera. A Rovereto il cuore della mostra saranno i suoi Manuali tipografici, il cui più recente volume è dedicato appunto a carte, filigrane ed inchiostri, «privilegiandone - come spiega nella prefazione - la dimensione estetica e tattile» più che non gli infiniti aspetti tecnici: il libro come opera d’arte. I Tallone, nella loro lunga storia, hanno usato le carte più belle, asiatiche ed europee, quelle dotate, parole dell’editore, di una «alchemica capacità di sfidare i secoli» restando perfette. Nel Manuale se ne offre una serie di campioni, con una particolare attenzione a quelle di Fabriano, dove tutto cominciò nel 1276 con la prima cartiera, quando ancora il nuovo materiale era guardato con sospetto.
Le tecniche sono complesse e si sono evolute lentamente nei secoli, ma il gesto è sempre lo stesso: ottenere dagli stracci macerati, all’inizio a mano poi con macchinari che li sminuzzavano e impastavano, una finissima poltiglia; distenderla su un telaio, lasciarla colare su un feltro di lana, pressare i fogli, «collarli» e cioè renderli resistenti con una particolare colla (a Fabriano si scoprì l’uso della gelatina animale per sostituire l’amido, che provocava pericolose muffe) e lentamente asciugarli. Forse la filigrana nacque per caso, da un errore di lavorazione, a causa di un telaio rotto che lasciò una traccia trasparente sul foglio (come ipotizza Franco Mariani, in un saggio del Manuale): ma subito divenne un segno fondamentale.
Ogni cartiera elaborava la sua, all’inizio gruppi di lettere poi veri e propri disegni. Si otteneva piegando, sulla squadratura di «filoni» e «vergelle» del telaio, un filo metallico intorno al quale il foglio si assottigliava impercettibilmente, offrendo così in controluce l’immagine. Se ne parla già nei trattati giuridici del XIV secolo, considerandolo un marchio di fabbrica con valore legale: che, come accade, non appena diffuso cominciò ad essere abbondantemente falsificato, dando luogo a controversie e truffe di ogni tipo. A riprova che le filigrane, le autentiche e le false, decifrabili fantasmi, sanno raccontare molto della nostra storia, anche di quella dimenticata.
Un esempio significativo è in quelle con la testa di toro che compaiono nel primo volume stampato a caratteri mobili: la Bibbia di Gutenberg. Com’è ovvio, è un’opera studiatissima, di cui si sa tutto e forse troppo (tanto che si è giunti a dubitare sia stata davvero composta con caratteri mobili, ma a pagine intere su cui sarebbe stato direttamene bulinato il testo). Le sue filigrane recano per il 70 per cento l’immagine di una testa di toro, per il 20 due diversi disegni di grappoli d’uva, e per il 10 un toro a figura completa. E spalancano la porta del tempo: perché quelli erano i «marchi di fabbrica» dei «molini» di Caselle, che all’epoca producevano una della carta più pregiate d’Europa.
Fabriano aveva fatto scuola, gli allievi avevano superato i maestri. La cittadina alle porte di Torino ha dedicato al tema un importante mostra-convegno (a un anno da una bella esposizione alla Biblioteca Nazionale torinese, che prendeva in esame l’attività di tutte le antiche cartiere piemontesi). Ma l’avventura della carta di Caselle e delle sue antiche filigrane riproposte ora nel Manuale di Tallone e nella mostra a Rovereto non è certo riservata ai soli specialisti, agli studiosi; quantomeno perché cela, e davvero «in filigrana», scenari di memoria ancora da riconquistare.