Gianfranco Morra, ItaliaOggi 26/2/2014, 26 febbraio 2014
PRIMA DONNA MINISTRO: NEL 1976
Come l’Apollo di Delfi sull’Elicona, anche quello di Rignano è salito sul Colle accompagnato dalle nove Muse. Il suo governo è il primo che passa da una teorica par condicio tra uomini e donne ad un reale fifty fifty. Sino al 1976 l’Italia non ha avuto ministri di sesso femminile. In quell’anno la prima: Tina Anselmi. Poi sempre pochine, ultimamente 4 con Berlusconi (2008) e 3 con Monti (2011). Letta ne volle un terzo (7 su 21), ma non gli è andata molto bene. Matteo ha raggiunto la parità: 8 su 16. E la nona musa? Era in sala coi tre figli, poco disposta a fare la first lady e desiderosa di tornare ai suoi studenti di liceo.
Il giuramento dei ministri si è svolto in un clima di austerity, come richiede il momento attuale, nel quale alcune rondinelle non ci hanno ancora portato la primavera. Ma come erano queste muse di Renzo? I giornali, ovviamente, hanno fatto colore, puntando sugli abiti. Ai quali qualcuno ha dato i voti (in genere bassi). Giusto: l’abito non fa solo il monaco, ma anche le ministre. Purché si cerchi di leggere in profondità, oltre i colori e i tacchi. In altre parole: quale tipo di donna emergeva dal look delle Segretarie di Stato?
Donne per lo più giovani non hanno ostentato né lusso nè griffe. Se etichetta significa spettacolo, ne abbiamo visto poco. Forse ha fatto eccezione solo la ministra delle riforme, Boschi, esuberante come la sua aderentissima mise color blu elettrico. Ma se etichetta vuol dire garbo e rispetto, allora hanno dominato. È stata, a loro modo, la scelta di uno stile, che appare per più ragioni la cifra del momento attuale.
Tutte insieme, le otto ministre, con le loro «mises» insieme moderne e tradizionali (gonna batte calzoni, 5 a 3) ci hanno offerto l’immagine di un superamento dei primi due tipi di donne, che si sono succedute nella nostra democrazia. Di certo ibernato il vecchio modello della prima donna, «tutta casa, tutta chiesa, tutta letto», come si esprimeva ironicamente Franca Rame. E come aveva fissato nelle sue regole Martino Lutero, con i famosi tre K: «figli, chiesa e cucina» (Kinder, Kirche, Küche). Anche la democrazia italiana ha superato questo modello limitativo, inconcepibile in una società industriale avanzata.
Senza che, con ciò, trionfasse il modello della seconda donna, quello del femminismo esasperato, esploso e spentosi nei decenni Sessanta-Settanta. Nel quale le giuste rivendicazioni di eguaglianza e libertà spesso si degradavano in una imitazione del modello maschile «odiato», che metteva in forse l’autenticità della condizione femminile, la sua «anima» (Jung), anzi il suo «genio» (Giovanni Paolo II). Il femminismo delle «mache» cancellava la femminilità. Ma la donna è troppo importante per essere una copia ritardata del maschio.
Ciò che oggi sta emergendo in tutto l’Occidente è un terzo modello di donna. Anche se gli strumenti comunicativi del Pensiero Unico, ritardati e stucchevoli, continuano a parlare di «rivoluzione femminile», la coscienza comune vive il problema in modo diverso. Sta nascendo ciò che non pochi sociologi, a partire da Lipovetsky, hanno chiamato «troisième femme». Consapevole della sua dignità, decisa a difendere i suoi diritti, la donna non è «contro» l’uomo, bensì «al suo fianco». Eguale e diversa, libera ma non libertaria, lavoratrice ma anche madre. Non più «l’un contro l’altro armato», i due sessi cercano la parità dei diritti, sia pure ammettendo alcune giustificate e insuperabili diversità, anche se non di rado ruoli e compiti sono interscambiabili.
In tal senso il giuramento sul Colle ha avuto un simbolo forte nel pancione della ministra della Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, «già vicina a sciogliere / il grembo doloroso» (Manzoni). Chi dice che la donna, per realizzare se stessa nella professione, debba essere «single»? Anzi, come diceva Edith Stein, essa realizzerà meglio la sua professione, se difenderà il suo «ethos specifico», se sarà non solo donna, ma anche madre. Il papa emerito Ratzinger aveva capito sino in fondo il problema, quando nella sua Lettera Apostolica del 31 luglio 2004 ha lanciato lo slogan: «La donna deve essere protagonista, non antagonista». Può essere assunto come augurio anche per le muse di Renzi.