Antonella Gullotti, Visto Tv 18/2/2014, 18 febbraio 2014
IL MAESTRO D’ITALIA
Fatta l’Italia bisognava fare gli italiani, dicevano gli storici all’indomani dell’Unità. E, in un Paese frastagliato in una miriade di dialetti, bisognava fare anche l’italiano, cioè diffondere la lingua combattendo l’analfabetismo. Era il 15 novembre 1960 e sul Programma nazionale (quello che poi sarebbe diventato Raiuno) andava in onda la prima puntata di Non è mai troppo tardi, sottotitolo: “Corso di istruzione popolare per adulti analfabeti”, trasmissione che può essere considerata come la prima forma di scuola a distanza. Alla conduzione, il maestro Alberto Manzi. Il concetto era questo: si stava davanti alla tv, la sera, poco prima di cena, ma era come se ci si trovasse seduti in una classe della scuola elementare. Requisiti fondamentali per essere studenti modello, trovare qualcuno che avesse un apparecchio televisivo (cosa non del tutto scontata nell’Italia degli anni Sessanta), al bar, in parrocchia o a casa dei vicini, e sedersi davanti a esso con la voglia di imparare. È questa la storia che Raiuno, per festeggiare i suoi sessant’anni, racconterà lunedì e martedì in prima serata con la miniserie in due puntate dal titolo, appunto, non è mai troppo tardi. Un tuffo nella storia della televisione italiana, che è anche un tuffo in un pezzo d’Italia, quello compreso tra il 1946 e il 1960, tra l’immediato dopoguerra e il boom economico. Quello di un Paese che sul ricordo di un conflitto ancora troppo vivo cercava di ricostruire se stesso e la propria dignità, passo dopo passo, con pazienza. Ma, soprattutto, la fiction racconterà un pezzo di vita di un uomo, Alberto Manzi, «il maestro dal fisico d’attore». A vestirne i panni, Claudio Santamaria. Con lui, nel cast, anche Nicole Grimaudo (la moglie Ida), Roberto Citran, Giorgio Colangeli, Edoardo Pesce, Marco Messeri e molti altri. La regia è affidata a Giacomo Campiotti, che dalla sua ha una laurea in Pedagogia e svariate serie tv (l’ultima, in ordine di tempo, Braccialetti rossi). Nel 1946, quando la storia comincia, Manzi è un giovane di vent’anni che decide di fare il maestro, convinto che l’educazione renda l’uomo libero. Così cerca una scuola in cui poter iniziare a insegnare, ma l’impresa non è delle più semplici. Ad aspettarlo c’è una sola cattedra, quella che nessuno vuole perché in realtà non è neanche all’interno di una vera e propria scuola, ma dentro un carcere minorile, l’“Aristide Gabelli” di Roma. Inizia qui l’avventura di Alberto, alle prese con più di novanta ragazzini, dai nove ai diciassette anni, tutti con problematiche diverse tra di loro ma con una cosa in comune: l’aver fatto scappare altri quattro maestri prima di lui. Manzi però non si abbatte, insegna e, piano piano, armato solo di penne e libri, riesce a conquistare la fiducia dei suoi alunni, dimostrando che non c’è spazio per la rassegnazione, neanche in un luogo in cui tutti sembrano destinati a ripetere gli stessi errori. Detto con le parole del regista: «Alberto Manzi è un maestro che ai ragazzi non insegna nozioni. Insegna a “pensare”. Lavora con loro per formare uomini liberi, capaci di scelte libere. Per fare ciò lotta con tenacia contro ogni ostacolo: l’ignoranza e la pigrizia dei singoli individui o l’ottusità delle grandi istituzioni. Mai si arrende e mai trova scuse per rinunciare a fare tutto quello che può».
Dal carcere alla tv: è il salto che Manzi, e con lui la fiction, compie nel 1960. L’Italia assapora il boom economico, la gente comincia a spendere i propri soldi, a comprare i primi elettrodomestici, un frigo, una tv. Ma ha un problema, racchiuso in un numero: quattro milioni di adulti analfabeti. Così la Rai, che all’epoca è ancora una bambina (ha inaugurato infatti le sue trasmissioni solo qualche anno prima, nel 1954), convinta della funzione pedagogica insita nel mezzo televisivo, decide di fare qualcosa. Pensa allora a un programma che possa insegnare a leggere e a scrivere a chi non ha più il tempo per andare a scuola, ma ha tutta la voglia per imparare a farlo. Il programma si chiama Non è mai troppo tardi. Resta da trovare un insegnante, reale ma telegenico, a cui affidarlo. Inizia il vaglio dei candidati e, un provino sconfortante dopo l’altro, arriva il momento di Manzi. Che fa subito parlare di sé: ricevuto il copione da seguire, lo strappa, preferendo invece affidarsi al suo istinto. E improvvisa una lezione con fogli, gessetti e disegni, lasciando folgorato il personale Rai. Il maestro d’Italia sarà lui. Parte così un’avventura durata otto anni (fino al 1968) e 484 puntate, in cui Manzi conduce alla licenza elementare circa un milione e mezzo di persone. Nella fascia preserale, dal lunedì al venerdì, attrezzato con un cavalletto su cui è montato un grosso blocco di carta, gessetti e persino una rivoluzionaria lavagna luminosa, porta per mano adulti, anziani e chiunque sia seduto in quel momento davanti alla tv nel regno dell’istruzione. Lo fa con un linguaggio semplice, diretto e per nulla noioso, nella convinzione che la scuola sia il luogo in cui riscattarsi, diventare cittadini migliori e più consapevoli grazie al sapere. «Imparare a leggere e a scrivere – diceva – per conoscere tutto il resto dell’umanità».
CARO MAESTRO TI SCRIVO
Mai c’è stato nel nostro Paese un maestro tanto amato. Lo attestano le migliaia di lettere che Manzi ha ricevuto negli anni di “alunni” o genitori che ringraziano il maestro per i suoi insegnamenti in tv. E tutte queste lettere, insieme a un ricchissimo materiale multimediale, sono raccolte e catalogate dal Centro Alberto Manzi, che porta avanti mostre, progetti didattici con le scuole, convegni. Perché per imparare con Manzi non è mai troppo tardi...
UN RIVOLUZIONARIO SEMPRE IN CATTEDRA
Alla chiusura del programma nel 1968, Alberto Manzi tornò a fare l’insegnante fino all’81 quando fu sospeso per un anno perché si rifiuto di redigere le nuove schede di valutazione («non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia e se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest’anno, l’abbiamo bollato per i prossimi anni»). Quando tornò decise di timbrare tutte le schede con lo stesso giudizio: «Fa quel che può, quel che non può non fa». Dal 1995 al 1997, anno della sua morte, fu sindaco di Pitigliano (Grosseto), eletto tra i democratici di Sinistra.