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 2014  febbraio 27 Giovedì calendario

L’ULTIMA ACCUSA DI ROMANO BILENCHI: SIAMO UNA DITTATURA DEMOCRATICA

Non conoscevo Bilenchi e avevo sempre desiderato conoscerlo. I suoi libri mi piacevano molto. Avevo letto ancora ragazzo Mio cugino Andrea e poi, via via, Conservatorio di Santa Teresa, Il bottone di Stalingrado e Amici che me l’aveva reso famigliare con quei ritratti cosi veri di Vittorini, di Rosai, di altri. Era davver o uno «splendido raccontatore orale» come di lui aveva scritto Gianfranco Contini. Sempre secondo il sommo critico, Bilenchi era «cronologicamente il primo in quel gruppo di valenti narratori toscani che a circa vent’anni di distanza, scevri d’ogni ornamentazione, ripresero la lezione di Tozzi».
Avevo sempre considerato Bilenchi un maestro. Lo ammiravo per i suoi libri e per le sue passioni mescolate, la politica, la scrittura, il giornalismo. Quel bellissimo giornale che aveva fondato e tenuto in piedi dal 1948 al 1956, «Il Nuovo Corriere» di Firenze, chiuso per la cecità del gruppo dirigente del Partito comunista, era stato una delle sue creature. Vi avevano scritto uomini come Calamandrei, Parri, Jemolo, Salvemini, De Robertis, Garin, Cases, Delfini, Mila, Luigi Russo, Carlo Bo, Roberto Longhi, Fortini, Antonicelli, Tobino, Bianchi Bandinelli. Politicamente e culturalmente era troppo avanzato per quei tempi.
Il colpo di grazia fu, il primo di luglio del 1956, l’articolo di Bilenchi intitolato I morti di Poznan che si schierò dalla parte degli operai polacchi in rivolta: «I morti di Poznan — scrisse in quell’articolo — sono morti nostri, non vostri». Si rivolgeva cosi agli uomini della destra di casa, ai governanti impudichi che avevano ordinato il fuoco della polizia contro gli operai e i contadini di Modena, di Melissa, di Comiso, di Barletta, di Venosa, e che ora speculavano su quei morti polacchi: «Questi morti ci incitano sempre piu a percorrere intera la nostra strada». La strada di Bilenchi fu accidentata. Perché antepose sempre a tutto le ragioni della libertà, non tacque mai. 

Alla fine del 1988 scrivevo sull’allora terza pagina del «Corriere della Sera» dove ero approdato l’anno prima quando era diventato direttore Ugo Stille. Avevo proposto una serie di articoli — allora si usavano — Padri e maestri . Bilenchi non doveva mancare, finalmente l’avrei conosciuto. Avevo già intervistato Eugenio Garin a Firenze, Gianandrea Gavazzeni a Bergamo, Carlo Dionisotti a Londra. Nel gennaio 1989 era venuta la volta di Romano Bilenchi, nel quartiere fiorentino delle Cure. L’articolo usci l’11 gennaio. Chiusi quella serie andando ad ascoltare Franco Venturi a Torino e Aldo Garosci a Roma.
Con Bilenchi si creò subito una grande consonanza. Era come l’avevo sempre immaginato, un uomo libero, anche se così sofferente, ammalato di una polineuropatia diabetica molto dolorosa che prendeva i nervi, i muscoli di tutto il corpo, le gambe e gli impediva di camminare. Non usciva di casa da sette anni, le sue giornate erano tremendamente uguali. La mattina si alzava tardi, sedeva a un grande tavolo con tutti gli attrezzi — li chiamava così — che gli servivano: i telecomandi, le scatole delle medicine, una bottiglia d’acqua, il tabacco. Aveva alle spalle qualche fotografia-simbolo di uomini che per lui avevano contato: Tolstoj, con un caffetano bianco, Lenin, Gramsci e Ottone Rosai, soldato della Grande guerra.
A Ugo Stille piacevano da sempre i libri di Bilenchi e mi aveva pregato di chiedergli di scrivere sul «Corriere». Quel che voleva.
Bilenchi, nel passato, aveva scritto sul giornale di via Solferino, quattro articoli nel 1970-71, otto articoli nel 1981 entrati nel Gelo , il libro dell’adolescenza.
Riuscii nel compito che mi era stato affidato, favorito dal clima di reciproca simpatia e dal fatto che Bilenchi avesse letto qualcuno dei miei libri. Scriverà sul «Corriere» cinque articoli: il 23 aprile, Un elefante di marmellata per l’amico Linder ; il 25 maggio, Due veri Ucraini e un falso partigiano ; il 25 giugno, E portai Maccari alle «Giubbe Rosse» ; il 25 luglio, Quando lessi la mia condanna a morte ; il 27 settembre, Quando tornano i fantasmi dell’infanzia . Il suo mondo, come sempre.
L’intervista durò ore, tutto il pomeriggio. Bilenchi non smise mai di parlare, ne aveva voglia. Non era facile capire quel che diceva; il male aveva intaccato le corde vocali. La moglie dello scrittore, la signora Maria, che per tutta la vita gli era stata accanto, mi aiutava con gentile premura quando capiva che ero in difficoltà.
Ho ritrovato gli appunti di quel giorno, li rileggo, almeno in parte, e mi sembra di rivederlo, Bilenchi, imprigionato dietro quel tavolo, lucido nella memoria, lieto di rinverdire ancora il passato.
«Come sta Bilenchi?»
«Male, ho dei dolori da impazzire, da non capire più nulla. Vivo così da 16 anni e sette mesi. Non cammino, non ci fo dieci metri. Non esco di casa dall’inverno del 1981. Ora era il momento che avevo smesso di fare il giornalista bischero. Adesso vo in pensione, mi dicevo, scrivo quei 5-6 libri che devo scrivere. Ne ho scritti due e poi mi sono bloccato».
Non era facile riuscire a tenere un filo logico con Bilenchi. Seguitava con me a esprimere i pensieri che da anni gli dovevano martellare la testa, senza contraddizioni, ma senza una continuità. Il fascismo, il comunismo, Togliatti, il tempo presente si intersecavano tra loro con naturalezza.
«Che mondo è quello che lei vede da qui?»
«Non mi piace. Questa democrazia bloccata non mi va giù. Questa specie di dittatura democratica... Lei può dir tutto e tutti se ne fottono, c’e questa differenza col fascismo. Io vedo i giornali oggi e mi sembrano quelli del ’36-’37. Tutti uguali, come i giovani che vengono qui. Il Pci va giù per tante cose, perché non ha mai preso un treno in tempo. Bisognava che avesse coraggio. Gli uomini del partito sono privi di qualità. Togliatti era un grand’uomo».
«Anche se lei dopo la chiusura del “Nuovo Corriere” gli mandò una letteraccia. Ringraziò tutti, nel suo Congedo, non il Partito».
«Più di una volta, anche a voce gli dissi quel che dovevo. Con Togliatti si parlava. Era un democratico. La famosa doppiezza non la vedo. Se dicessi che era uno stalinista sarei un porco».
«Lei è una persona piena di umori, di attenzioni per gli altri. Togliatti non era particolarmente simpatico».
«A me sì, parecchio. “Sono stato fascista”, ho detto una volta, e lui mi fece una carezza. “Tutti sono stati fascisti”. “Voi no, quelli che erano in galera e chi era in Francia e chi in Russia”. “Non importa”. E infatti quel suo libro di Lezioni sul fascismo per me è di importanza grande. Col giornale che facevo seguivo tutti i movimenti popolari al di fuori dei partiti che dessero garanzia di antifascismo e di democrazia perché, dicevo anche a Togliatti, da noi non ci si fa».
«È strana questa sua amicizia e fedeltà nei confronti di Togliatti. È stato lui, alla fine, a dare il suo consenso alla chiusura del “Nuovo Corriere”. Il Pci era un partito ben centralizzato».
«“Sta’ attento, mi diceva di fronte ai dirigenti del partito. Sta’ attento, difendi questo giornale perché te lo levano”. Era stato attaccato da Pajetta, da Terracini. “Sei sulla strada giusta, vai avanti — mi diceva —. Però corri troppo, ti romperai la testa e io non potrò nemmeno ricucirtela perché devo arrivare con tutti gli altri”. Il partito aveva ancora il cuore e il cervello a Mosca».
«Lei è un uomo strano. È stato un “fascista bolscevico” e poi un “comunista liberale”, come si suol dire. Ha sempre rifiutato gli anarchismi e tutto quanto è fuori dalla regola. Ma lei è sempre stato un ribelle».
«Come no? Sono e sono sempre stato in una gran confusione forse perché sono attaccato minuto per minuto a quel che succede. Oggi è cosi, domattina bisogna essere in un’altra maniera».
L’intervista andò avanti a balzelloni. Il fascismo, nel discorrere, tornava di continuo, ossessivo, ricorrente.
«Perché lei è sempre là col pensiero?»
«Era partito bene in piazza San Sepolcro — repubblica, comproprietà dell’industria, nazionalizzazione. Mussolini garbava molto perché alla gente uno che facesse tutto per lei andava bene. Per me fu una grande delusione vedere, negli anni Trenta, il fascismo “rivoluzionario” finito in mano ai pescecani. Accadde poi che con un gruppo di amici fummo convocati a Palazzo Venezia per render conto di un manifesto realista. In quest’occasione vidi il mito crollare. Il duce indossava un vestito buffo. Sa quei circhi equestri di paese col direttore vestito con una giacchetta lunga, non si capisce se è una palandrana, un tight, i pantaloni a righe, un clown. Mi venne il mal di stomaco, da sputargli sul muso. Era solo un tragico buffone».
Non riuscivo a fargli abbandonare la politica e le sue memorie. Era il 1989, l’anno della caduta di Berlino di cui seppe negli ultimi giorni della sua vita. Era entusiasta di Gorbaciov. «L’aspettavo — mi disse —, la via è segnata, la via è quella».
Ma io volevo farlo uscire dalla politica, fargli raccontare del suo scrivere, dei suoi libri. Con poco successo.
«Che cosa è contento di aver fatto nella vita, soprattutto?», tentai.
Pervicace, rispose cosi: «Di essermi iscritto al Pci» — era rientrato nel Partito nel 1972. «Dei miei libri non me ne fotte molto. Quello è un dono di Dio».
«Quali sono state le cose importanti dell’esistenza?»
«La moglie e la politica, la famiglia, gli amici. La mia storia di uomo dentro la società. E poi la natura. La letteratura non è stata la cosa più importante. Non lo concepisco, uno che s’alza da letto e alle otto della mattina pigia la macchina da scrivere e finisce a mezzogiorno. L’odio, uno così, m’ammazzerei piuttosto. Ho avuto sempre lunghi periodi di silenzio: dal ’41 al ’58 non ho scritto nulla. Scrivo solo quando non ne posso più, quando sento che devo farlo».
«E nella testa adesso sta rimuginando qualcosa che le piacerebbe scrivere?»
«Sì, un romanzo d’amore. Vent’anni fa, tra Siena e Firenze, intitolato L’innocenza di Teresa . E poi racconti, trame ne avrei, ma non riesco neppure a dettare». E mi guardò con malinconia.
Da quel garbuglio cavai l’intervista che uscì sulla terza pagina del «Corriere» l’11 gennaio 1989 e fece poi da introduzione al volumetto pubblicato da Vanni Scheiwiller, Tre racconti , uscito per gli ottant’anni dello scrittore.

L’Istituto Gramsci di Firenze organizzò per quell’occasione nella sua sede di via Giampaolo Orsini una festa convegno. Era l’11 novembre 1989, un sabato pomeriggio. Parlarono in molti nella piccola sala. Romano doveva comparire anche lui in collegamento video. Si seppe allora che stava male, non l’avremmo visto. La festa di compleanno finì malinconicamente.
Ugo Stille, Gianfranco Piazzesi e io decidemmo allora di andarlo a salutare nella sua casa, in via Brunetto Latini. Ci aspettava immobile dietro quella sua plancia dove aveva vissuto per tanti anni. In quel 1989, l’avevo visto e sentito più volte, ci eravamo anche scritti.
La visita era un addio, ne eravamo coscienti e anche lui lo era. Ci rendemmo conto, dalla fatica con la quale si esprimeva, che stava molto male. Voleva parlare e le sue parole si attorcigliavano l’una nell’altra. Che cosa voleva dirci? Qualcosa di preciso che avremmo dovuto fare. Un invito, un monito, un moto di coraggio? Si rivolgeva sopratutto a Misha (Stille) e a me.
Sono rimaste nel cuore quelle parole spezzate. Romano è morto pochi giorni dopo. Col dolore di molti perché era un uomo di passioni vere e di affetti profondi.