Anna Tarquini, l’Unità 26/2/2014, 26 febbraio 2014
DUE ANNI SOTTO SCORTA MA È FICTION
Se fosse una storia reale, e pare lo sia, il signor Truman Burbank costretto nello «Show» sarebbe un pivello rispetto a Vincenzo e Patrizia – coppia di Agrigento – per due anni vittime di una fiction a loro insaputa. Finiti in un programma di protezione per sfuggire alla mafia con tanto di minacce, auto bruciate, intercettazioni e maresciallo amico, nome in codice Orso, che ogni tanto li va a trovare per tranquillizzarli. Due anni d’inferno ed era tutto falso. Una storia talmente inverosimile che supera di gran lunga la fantasia anche perché ad organizzare lo show è un regista cinematografico, un regista noto per i film sulla mafia. Non è chiara la ragione della messa in scena, anzi, per meglio dire la ragione è ignota come dicono i magistrati.
L’unica cosa certa sembrerebbe dunque la sentenza scritta nei giorni scorsi dal giudice monocratico di Palermo Patrizia Ferro. Una condanna a sei anni per sequestro di persona per Mario Musotto e due suoi complici, Alfredo Silvano e Daniela Todaro. Mario Musotto, almeno nella Valle dei Templi, è un regista molto conosciuto. Si occupa di documentari, documentari sulla mafia. Negli ultimi tempi stava lavorando al suo progetto più ambizioso: la realizzazione del film «Trent’anni di mafia ad Agrigento» dedicato al pm Nino Di Matteo e ai magistrati della Dda di Palermo prodotto da Filippo Alessi. I fatti contestati invece risalirebbero al biennio 2006-2008.
Cosa è realmente accaduto e soprattutto perché, è più difficile da spiegare. Un giorno Musotto si precipita preoccupato a casa del suo socio Vincenzo Balli (i due hanno una società di spettacoli, la Word Ticket) e di sua moglie Patrizia Trovato. Racconta loro che sono finiti nel mirino dei boss a causa sua. Lo hanno aiutato, gli hanno offerto ospitalità e la mafia – che lo tiene nel mirino per il suo impegno – ha deciso di far fuori anche loro. Vincenzo e Patrizia ci credono, si spaventano. Musotto li rassicura: «Conosco un carabiniere, vi metterà sotto protezione». Così appare una squadra di carabinieri coordinati dal maresciallo Quarta, detto Orso, a proteggere la famiglia Balli. Gli ordini sono precisi: tapparelle chiuse in casa per sicurezza, il telefono è intercettato perché aiuta le indagini, minacce di morte. Un thriller, con telefonate mute, minacce ed e-mail dei carabinieri che impartiscono ordini alla famiglia Balli su come comportarsi. Due o tre volte i falsi carabinieri impongono alla coppia che ha pure una bimba di tre anni di cambiare località per qualche giorno, ragioni di sicurezza. I coniugi raccontano di croci sotto casa, auto incendiate, macchine con il lampeggiante che sfrecciavano davanti al portone sempre alla stessa ora e rumori durante la notte. Due anni d’inferno fino a quando Vincenzo Balli – pare – si insospettisce e va dai carabinieri per capire come mai lui fosse finito nel mirino della mafia e chiede del maresciallo Quarta. Al comando sgranano gli occhi, ridono, mettono a verbale. Scatta l’indagine. Musotto nega, ma poi ammette la sua colpevolezza tirando dentro Balli. «Lui sapeva tutto – dice –. Ci siamo messi d’accordo all’insaputa di sua moglie per sfuggire ai creditori. La società è in difficoltà finanziarie». Balli ribatte: «In quel momento il pericolo ci sembrava reale, so che può sembrare assurdo, ma io e mia moglie ci abbiamo creduto e abbiamo vissuto due anni così, scappando dalla mafia». Ma la storia non sta in piedi, anche perché a un successivo accertamento Musotto non risulta avere debiti tranne un prestito di 15mila euro ottenuto da un impresario. Di certo resta dunque solo la condanna e una nota rilasciata alle agenzie di stampa dal produttore di Trent’anni di mafia: «Musotto è stato licenziato Musotto. Il mio film lo girerà qualcun altro».