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 2014  febbraio 26 Mercoledì calendario

L’ALTRO GIULIO – [C’ERA UNA VOLTA BOLLATI L’UOMO CHE NON ERA EINAUDI]


Giulio Bollati è una delle figure più singolari della cultura italiana del secondo Novecento. Questa affermazione, per me di solare evidenza, mi tornava in mente, leggendo le pagine dell’ultima sua raccolta di saggi, L’invenzione dell’Italia moderna. Leopardi, Manzoni e altre imprese ideali prima dell’Unità, recentemente propostaci da Bollati Boringhieri (con una prefazione di Alfonso Berardinelli, pagg. 224, euro 22). Ma, naturalmente, soprattutto se dovessi rivolgermi a un lettore di oggi alle prime armi, suggerirei di leggere questo volume prima o dopo, o comunque a riscontro, con l’altro suo, curato ab origine dallo stesso autore (1983), e abbastanza recentemente anch’esso ripubblicato, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione (introduzione di David Bidussa, Einaudi). L’accostamento fra “storia” e “invenzione”, come spiega lo stesso autore – e con questo stiamo già nel pieno della ricerca bollatiana – è di origine manzoniana (ma tornerò più avanti su questo intreccio di temi).
Giulio Bollati era un uomo imponente, sia fisicamente sia intellettualmente. L’ho conosciuto quando si preparava l’uscita del mio saggio su “La cultura”, secondo tomo del quarto volume della monumentale Storia d’Italia. Bollati allora (1974-75) era già da tempo il pezzo più grosso della casa editrice Einaudi dopo l’altro Giulio: lo guardavo da una rispettosa distanza. Bollati mi dimostrò in quattro e quattr’otto come lui intendesse il lavoro editoriale. Annullate di colpo tutte le distanze, mi chiese se ero d’accordo che fosse lui a preparare l’inserto fotografico del mio volume. Figuriamoci. Ne nacque così quella galleria di foto eccezionali, tutte dedicate a Torino (non a caso: suo grande odio-amore; ma più amore che odio), che, preceduta da una limpida ed efficace introduzione (e con la sapiente collaborazione di Agnese Incisa), spostava di per sé l’asse della storia culturale italiana contemporanea dai suoi luoghi più tradizionali (poniamo: Milano, Firenze, Roma) a questo più periferico e al tempo stesso, come dire?, sostanzialmente più centrale. Ebbi esperienza così, d’un colpo solo, del modo assolutamente fuori del comune con il quale Bollati concepiva il discorso culturale: a formare il quale convergevano in lui, con intuizione straordinariamente moderna, vettori di diversa origine e competenza. Ad esempio, appunto, la fotografia. Ricorderò appena, accanto all’esperienza precedente, i tomi 1 e 2 del secondo volume degli Annali della Storia d’Italia, tutti dedicati a “L’immagine fotografica” (accanto a lui, in questo caso, un sapientissimo Carlo Bertelli, Einaudi, 1979), una vera e propria monumentale “storia dell’Italia contemporanea” attraverso i volti, i gesti, i vari modi di atteggiarsi, comportarsi, lavorare e... morire, di molteplici italiani ritratti da professionisti, dilettanti e famigliari.
Questo modo preciso, circostanziato, efficace, e al tempo stesso allusivo e profondo, di affrontare i propri temi si ritrova nella sua produzione storicosaggistica. Non v’è ombra di dubbio che al centro dei suoi interessi restano dall’inizio alla fine, nei vari campi che ha affrontato, un interrogativo, una domanda: com’è fatto, anzi, forse sarebbe più esatto dire, come diavolo è fatto quel coso, o quell’insieme di cosi, che tradizionalmente si definisce “l’italiano”? (e, naturalmente, da qui in poi le domande si devono intendere nel senso più largo: cultura, politica, ideologia, comportamenti civili e... incivili). Per cui, se si dovesse ricostruire una genealogia del suo pensiero e della sua opera, io non esiterei a considerare da ogni punto di vista fondativo il suo saggio, indubitabilmente geniale, “L’italiano”, apparso nel 1972 nel primo volume della Storia d’Italia Einaudi, questa grande fucina di ricerca e di rinnovamento per la nostra cultura, a sua volta inconfondibilmente denominato “I caratteri originali” (impronta francese, certo; ma anche un grande contributo italiano: Romano, Vivanti; lo straordinario geografo Lucio Gambi; e in primis Giulio Bollati).
Intorno a “L’italiano” ruotano tutti i saggi che compongono i due volumi precedentemente richiamati: sia quelli che lo precedono e lo preparano (le introduzioni a La Crestomazia italiana. La prosa di Giacomo Leopardi, 1968, e a Le tragedie di Alessandro Manzoni, 1965), sia quelli che lo seguono e in un certo senso lo rafforzano e ulteriormente lo dimostrano (i saggi su Vittorio Alfieri e Alessandro Manzoni, 1989 (tutti raccolti, questi, nel volume Bollati Boringhieri, di cui all’inizio salutavamo l’uscita). In tutti questi casi il discorso si colloca, anche sulla base delle competenze specialistiche dell’autore, in una mobile e fecondissima zona di confine fra cultura italiana e cultura francese. In questo modo si rivela un altro aspetto della personalità bollatiana. L’uomo dell’editoria, il polemista e moralista, l’originale cultore della ricostruzione e documentazione fotografica, rivela una cultura di primissimo ordine, ai limiti della raffinatezza filologica. L’“italiano” di cui lui parla non è dunque un’astrazione ideologica. È il frutto sapiente di una combinazione di fattori psicocaratteriali, culturali e storicopolitici, gestita con mano sicurissima.
Termino con una considerazione, che forse non piacerà o piacerà poco sia agli uomini della Einaudi sia a quelli della Bollati Boringhieri: quanto bisognerà aspettare per vedere raccolti nello stesso volume (se necessario due), con cronologie e apparati bibliografici, e una scelta delle lettere da lui e a lui inviate, tutti i saggi di cui abbiamo qui discorso, e altri ancora qua e là sparsi? La personalità, l’uomo, lo meriterebbero.