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 2014  febbraio 26 Mercoledì calendario

BELFAST SFIDA LA REGINA


L’ultimo muro d’Europa sorge lungo una strada deserta, tra capannoni industriali in disuso e nuove villette disabitate che costruttori ingenui o ottimisti avevano eretto pensando a un futuro diverso. Da un lato sventolano bandiere dell’Union Jack e murales dei Red Hand Commandos, unità paramilitare unionista. Dall’altro murales di Mandela, “nel mio paese prima si va in prigione poi si diventa presidenti”, di Salvador Allende, del “compagno martire” Bobby Sands. Alto cinque metri, disseminato di check-point di metallo che la notte vengono sprangati dall’esercito, continua a dividere il quartiere protestante da quello cattolico di Belfast quasi vent’anni dopo gli accordi “del Venerdì Santo” che dovevano portare la pace in Irlanda del Nord. E in effetti ce l’hanno portata, concludendo la guerra civile che ha fatto 3700 morti nei tre decenni dei “Troubles”, come viene ricordata un’era nefasta di sangue, bombe e scioperi della fame in carcere ad oltranza. Ma a sostituirla è venuta una “pace fredda” che ora rischia di riaccendersi in conflitto intestino per causa di quanto sta avvenendo sulla sponda opposta del mare d’Irlanda.
Il referendum per l’indipendenza dalla Gran Bretagna che si terrà in Scozia nel settembre prossimo ha finora attirato l’attenzione del continente sulle conseguenze che potrebbe avere per inglesi e scozzesi. Qualunque sarà il suo esito, tuttavia, è come se in Ulster — l’altra denominazione della fetta settentrionale dell’Isola di Smeraldo — la consultazione avesse innescato un ordigno a orologeria. Se la devolution incoraggiata a suo tempo da Tony Blair con l’obiettivo di mantenere unito il Paese permette alla Scozia di decidere da sola il proprio destino, non si vede perché l’Irlanda del Nord non potrebbe fare altrettanto, chiedendo ai propri abitanti di scegliere democraticamente se restare parte del regno di Elisabetta II o ricongiungersi con la repubblica irlandese.

Nel 1998, quando fu firmata l’intesa che ha messo fine alla guerra civile e condotto protestanti e cattolici a governare insieme la regione, si sapeva quale sarebbe stata la risposta al dilemma: i protestanti, ovvero gli unionisti fedeli alla Londra, erano la maggioranza della popolazione, e infatti nel governo congiunto di Belfast sono sempre stati loro ad avere la premiership (ai cattolici indipendentisti spetta il posto di vice primo ministro), così come i loro partiti hanno la maggioranza in parlamento. Ma dall’anno scorso, per la prima volta, le statistiche indicano che i cattolici sono diventati più numerosi tra la popolazione. Di poco: 52 a 48 per cento. Nelle scuole, tra i minorenni, la percentuale a loro favore è però assai più netta: i protestanti sono appena il 37 per cento. Una realtà molto semplice, addirittura banale: i cattolici fanno più figli. Avevano sempre lottato per vincere la guerra nelle strade. Invece la stanno vincendo in camera da letto. Se si tenesse oggi un referendum sull’indipendenza del-l’Ulster, forse lo vincerebbero. Se si votasse tra qualche anno, lo vincerebbero di sicuro.
Per questo l’idea di imitare la Scozia è più che una tentazione: è un progetto, sebbene non ancora ufficialmente proclamato. C’è perfino una possibile data: la Pasqua del 2016. Un’altra Pasqua, come quella in cui furono firmati gli accordi di pace. Ma soprattutto come quella di cento anni prima, nel 1916, quando l’Ir-landa si ribellò alla corona e ottenne l’indipendenza – a eccezione delle sue province settentrionali, che Londra non volle cedere. Una Pasqua che, come scrisse W. B. Yeats, uno dei grandi autori irlandesi, in “Easter 1916”, poesia diventata famosa, “cambiò tutto”. Senonché non cambiò proprio tutto. Il cambiamento completo, definitivo, potrebbe venire nel 2016. O comunque in un domani non troppo distante. «Un sì scozzese all’indipendenza nel settembre 2014 renderebbe difficile per l’Irlanda del Nord resistere alla richiesta di un referendum per lasciare il Regno Unito nel 2016», afferma il professor Murray Pittock, politologo della Belfast University. «Se la Scozia diventa indipendente sarà la fine della Gran Bretagna», predice Gerry Adams, presidente dello Sinn Fein, il partito cattolico nord-irlandese. «Si avvicina l’Indipendenza per l’Ulster?» s’interroga in un editoriale il Belfast Telegraph, maggior quotidiano della regione.
E’ questa prospettiva ad avere scatenato di nuovo la tensione, dopo anni in cui pareva un incubo sepolto per sempre. Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli episodi di violenza: autobombe, sparatorie nella notte, attentati, scontri con la polizia. Non ci sono state stragi come in passato, ma in qualche occasione ci è mancato poco. La responsabilità viene assegnata a fazioni di “irriducibili”, per lo più unioniste. Ma anche i leader politici delle due sponde, che per un lungo periodo dopo la firma degli accordi sono andati d’amore e d’accordo, hanno cominciato a litigare. L’anno scorso il municipio di Belfast ha deciso di non issare più sul pennone l’Union Jack, la bandiera britannica, nelle feste nazionali. E come mai lo ha deciso proprio l’anno scorso? Perché ora i cattolici sono il partito di maggioranza in città. Poi, nel gennaio di quest’anno, il primo ministro protestante Peter Robinson ha accusato il vicepremier cattolico Martin McGuinness, un ex-comandante militare dell’Ira, l’Irish Republican Army, l’esercito clandestino separatista, di essere “un dittatore” e di avere ceduto “all’estremismo” facendo fallire un nuovo ciclo di negoziati per portare avanti la coesistenza pacifica. Il diplomatico inviato da Barack Obama (con il sostegno dei governi di Londra e di Dublino) a mediare fra le due parti, Richard Haass, è tornato a Washington a mani vuote. Concedere più autonomia a regioni come Scozia e Irlanda del Nord, ammette Jonathan Powell, ex-capo di gabinetto di Blair ed ex capo negoziatore in Ulster, è stato come «liberare il genio dalla bottiglia: una volta uscito fuori è impossibile ricacciarlo dentro».
Beninteso, negli ultimi dodici mesi in Irlanda del Nord sono rimasti feriti 600 poliziotti: nel 1972 ci furono 10 mila scontri a fuoco. Negli ultimi sei anni nella regione ci sono stati 18 morti attribuiti a esecuzioni e vendette tra unionisti e repubblicani: durante i momenti più gravi dei “Troubles” ne morivano di più in una sola giornata. A quell’epoca Belfast, una piccola città di 275 mila abitanti, aveva la reputazione di essere uno dei luoghi più pericolosi della terra: oggi il suo centro risplende di shopping center, boutique firmate, bar alla moda, il Titanic Museum attira turisti dall’America all’Australia e perfino la famigerata prigione di Crumlin road, teatro di attentati e digiuni di prigionieri, è diventata un’attrazione turistica, con visite guidate e sito internet. Nell’aria si sente odore di globalizzazione, più che di polvere da sparo. E grazie all’Unione Europea, di cui sia Irlanda che Gran Bretagna sono membri, non c’è più un confine tra repubblica irlandese e Ulster: in macchina lo si attraversa senza accorgersene. Ma basta uscire dal centro, avventurarsi su Falls road e Shankill road, la strada simbolo del quartiere cattolico e quella simbolo del quartiere protestante, per ritrovare i memoriali delle vittime, gli slogan battaglieri, i murales di mitra e combattenti incappucciati. Qui la frontiera è ancora visibile, intrisa di antico dolore e odio insanabile. Nei piani dell’accordo di pace il muro che tiene separati cattolici e protestanti doveva essere abbattuto da un pezzo. Adesso gli uni e gli altri sono ben contenti che l’ultimo muro d’Europa sia rimasto al suo posto.