Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 26 Mercoledì calendario

IL VINCOLO DI BILANCIO E LA STRETTOIA «FISCAL COMPACT»


Se il buon giorno si vede dal mattino, come dicono certi polverosi proverbi contadini, allora il «buongiorno» portato all’Italia dalla riduzione del suo deficit pubblico giustifica certi brindisi e applausi che già sono nell’aria: perché arriva dopo notti, lunghe notti, di recessione feroce, e perché sembra finalmente smentire il luogo comune dell’Italia-cicalona impenitente: un deficit al 2,6% del Pil nel 2014, e al 2,2% nel 2015, porta con sé innanzitutto sonore sventole allo «spread», e cioè interessi minori pagati agli investitori che preferiscono i nostri titoli di Stato Btp a quelli tedeschi. Poi, un Paese che sta al di sotto del limite deficit/Pil fissato dalla Ue, il 3%, e ci sta di un rassicurante -0,4-0,8%, può anche sperare in qualche margine in più di tempo sui futuri obiettivi, o in qualche deroga rigenerante alle tenaglie richieste da Berlino. Purché l’ottimismo non inganni i governi ex cicaloni: mai dimenticare che il «fiscal compact», l’insieme di regole targate Merkel che accomuna tutti i Paesi dell’euro in una sola griglia antisprechi, esiste ancora, e ci ha piantato nella Costituzione un chiodo chiamato pareggio di bilancio «senza se e senza ma» (chissà come si dirà in tedesco). Inoltre, mai dimenticare che per scivolare di nuovo al di sopra di quel 3%, basta poco. Soprattutto per chi l’ha già fatto in passato, e per di più si porta sulla gobba il secondo debito pubblico d’Europa.