Fabrizio Salvio, SportWeek 22/02/2014, 22 febbraio 2014
JUVENTINI SI CRESCE
Gianlulgi Buffon
AFFARI DI FAMIGLIA
Dei padri, a volte, non sono le colpe a ricadere sui figli, ma il talento. Nel caso specifico, quello per lo sport. Gigi è figlio di Adriano, campione italiano juniores di peso e disco, ma non basta: sua madre Maria Stella è stata campionessa nazionale nel lancio del peso e primatista in quello del disco con un record durato 17 anni. C’è poi quella parentela lontana con Lorenzo, portiere del grande Milan degli Anni 50. Inevitabile che il patrimonio genetico del giovane Buffon fosse toccato da tanta grazia: risultato, esordio a 17 anni in A proprio contro il Milan e paratissime su Weah e Baggio, tali da convincere Nevio Scala a non toglierlo più di squadra. Da casa. Carrara, è andato via a 13 anni. Fin lì, le sue giornate erano state scandite dalle partite con gli amici del cuore Marco e Claudio nel cortile della palazzina di periferia dove abitava con la famiglia. All’epoca Gigi giocava in attacco. Dopo, già grande, tornava a casa anche per chiudersi in un podere vicino per cantare a squarciagola i cori degli ultra. Non ha mai strappato le radici dai suoi luoghi natale oggi è proprietario della squadra di calcio della città.
Andrea Barzagli
UNA VITA IN MUSICA
Uno juventino nato a Firenze: come se Renzi decidesse di spostare gli uffici del governo a casa Letta. «Ma io ho lasciato Fiesole, dove sono nato, prestissimo e non ho mai giocato nella Fiorentina: non ho avuto tempo per respirare lo storico clima di ostilità verso la mia squadra attuale», dichiarò il difensore in un’intervista. Di Firenze, Barzagli ha respirato invece la cultura, l’arte, le bellezze architettoniche: mano nella mano di papa Saverio e mamma Anna, da bambino rimaneva incantato col naso all’insù ad ammirare il campanile di Giotto. Dopo, in cameretta, più prosaicamente metteva su le canzoni di Vasco. La musica è stata la colonna sonora della sua adolescenza: Radiohead, Kurt Cobain, U2, Led Zeppelin. Anche per questo, forse, e non soltanto per il calcio, per i libri è rimasto pochissimo tempo: ha studiato da geometra senza mai diplomarsi.
Leonardo Bonucci
CRESCIUTO A PANE E NUTELLA
«Mia madre mi diceva: attento che non cresci se mangi solo pasta in bianco e pane e Nutella! Beh, guardatemi adesso». Guardatelo, il difensore bianconero, e provate a farlo fissandolo negli occhi: per riuscirci dovreste essere alti quanto i suoi 196 centimetri. All’epoca, però, mamma Dorita non aveva tutti i torti: tra i bambini che giocavano a pallone nei vicoli di Pianoscarano, il quartiere medioevale di Viterbo dove è cresciuto, Leo era uno dei più bassi e paffutelli. Cosa che non gli ha impedito di diventare un leader, già tra i ragazzini della parrocchia.
Giorgio Chiellini
UN DOTTOR DIFENSORE
Proprio vero che l’esempio conta. Figlio di padre chirurgo ortopedico e madre manager, “Chiello” non avrebbe potuto accontentarsi di diventare un (bravo) calciatore. Si è dunque laureato in Economia e Commercio, esempio raro tra quelli che svolgono la sua professione. «Sono cresciuto con mia madre, una tostissima. Non ho mai avuto alcun dubbio che, oltre al pallone, nella mia vita ci sarebbero stati anche i libri». I suoi, separati, gli hanno lasciato in eredità valori fondamentali quali onestà, correttezza, generosità. Non la fede, però: cattolici praticanti loro, ateo lui.
Stephan Lichtsteiner
CASA DOLCE CASA
Affacciata sul lago dei Quattro Cantoni, circondata dalle vette del Rigi, del Pilatus e dello Stanserhorn, Lucerna è una delle città svizzere più frequentate dai turisti. Stephan Lichtsteiner qui è nato e qui riesce a passare inosservato, perché la città lo ha visto crescere e restare quello che è sempre stato fin da bambino. «Sono molto legato ai miei genitori e a mio fratello. Non cerco distrazioni speciali, mi piace stare con loro. Insieme a loro, quando torno a casa faccio quello cha facevo da piccolo: tennis, fitness e gite al lago». Nel 1985 il padre fu uno dei fondatori del club dell’Adligenswil, e forse sperava che il figlio, che con quella maglia ha iniziato, invece che terzino diventasse un attaccante.
Andrea Pirlo
L’OMINO DI FLERO
Ancora di più adesso che ha una nuova compagna dopo una vita passata con Deborah, madre dei suoi due figli, Andrea Pirlo tiene alla riservatezza. Una riservatezza per giustificare la quale sono state costruite battutine e leggende, come quella delle origini sinti del ramo paterno della famiglia, che il giocatore ha sempre sdegnosamente respinto minacciando querele: «Non perché ci sia qualcosa di male, in quelle presunte origini (i sinti sono una etnia zingara; ndr), ma semplicemente perché non corrispondono al vero». È vero invece che è nato a Fiero, in provincia di Broscia, e che il padre è titolare di un’industria siderurgica, settore nel quale è entrato pure lui con la sua holding Ap10. Il regista della Juve si è dato anche alla produzione di vini, con un bouquet di Marzemino, Sangiovese e Trebbiano imbottigliati in una cascina medioevale dalle parti di Brescia. Su entrambi gli argomenti, siderurgico e vinicolo, non dice una parola più del necessario, trattandosi di attività economiche e odiando lui parlare di soldi.
Si è concesso, invece, su innocui ricordi del bambino che è stato e che nella mente aveva già un unico pensiero: diventare un calciatore. E uno specialista di punizioni. Si allenava a calciare la palla superando il divano del salotto e mirando verso un punto immaginario sulla parete, è cresciuto guardando le videocassette dei grandi “10” come Maradona e Zico e ha avuto nel brasiliano Juninho il suo punto di riferimento sui calci da fermo.
Arturo Vidal
LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA
Poi ci sono quelli come Vidal, quelli presi dalla vita a bastonate nelle ginocchia da bambini, quando fa più male, ma che, invece di piegarsi dal dolore, vengono su belli dritti, testa alta e petto in fuori. Del padre Erasmo, Vidal porta solo il nome (il suo secondo) e il cognome. Per il resto è come se non lo avesse mai avuto. Perché il signor Erasmo, di professione facchino, nella sua vita non c’è mai stato. Ha abbandonato lui e la mamma quando Arturo aveva 5 anni. La donna, Jaqueline, ha cresciuto 5 figli, 4 maschi e una femmina, a San Joaquin, un sobborgo a ovest di Santiago, capitale del Cile, spezzandosi la schiena e ripetendo ossessiva ai suoi ragazzi «di lottare sempre, di credere in ogni cosa che avessimo deciso di fare», racconta Arturo. Lui ci ha creduto. Non serve dire altro, per spiegare perché in campo Vidal è come uno squalo che ha fiutato l’odore del sangue.
Kwadwo Asamoah
IL SIGNOR LUNEDÌ
In Ghana, dove è nato, si usa dare al neonato il nome del giorno della settimana in cui è venuto alla luce. Nel suo caso era Kwadwo, lunedì. Cresciuto ad Accra, la capitale dello Stato africano, come tantissimi altri ragazzini della sua gente ha cercato nel calcio una strada verso il futuro. «Ogni giorno qualcuno bussava alla porta di mio padre per chiedergli di lasciarmi andare nella squadra di cui era allenatore o dirigente», raccontò a Sport Week. Il padre ha detto no finché ha potuto, soprattutto per orgoglio: «Non eravamo così poveri. Papà lavorava nell’elettronica. Quando due anni fa ha compiuto 69 anni mi ha chiamato per chiedermi un regalo: era un compleanno importante, pochi arrivano alla sua età in Ghana». Kwadwo ha aspettato di liberarsi dagli impegni professionali prima di fargli il dono promesso: una casa nuova.
Fernando Liorente
IL CAMPIONE BAMBINO
Come tantissimi altri, per far fortuna nel calcio Fernando Liorente ha fatto quello che un bambino non dovrebbe mai essere costretto a fare: lasciare la propria famiglia. A lui capitò a 11 anni, quando si trasferì dalla cittadina dove era cresciuto, Rincón de Soto, famosa per la sua frutta e verdura, in direzione Bilbao, per rispondere alla chiamata dell’Atletico, che lo aveva adocchiato, biondo e allampanato ma coi piedi fuori concorso. Padre macellaio, famiglia appassionata di corride, Fernando aveva attirato le attenzioni di importanti squadre spagnole perché la metteva dentro che era un piacere. Bilbao, dunque. Una nuova famiglia ad accoglierlo, seguirlo negli studi, accompagnarlo agli allenamenti. La donna che per lui stava quasi diventando una seconda mamma morì di cancro un anno dopo il suo arrivo. «Non ho mai più vissuto un’esperienza così dura. Al confronto, tutto quello che è venuto dopo, tutta la fatica che ho fatto per affermarmi nel calcio, mi pare una sciocchezza».
Carlos Tevez
UNA STORIA DA FILM
Strano, che nessuno abbia ancora pensato di tirarci fuori un film. Dunque: Carlos Tevez nasce in realtà Carlos Cabral. Il padre, Juan Alberto, non lo riconosce e muore in una sparatoria quando suo figlio ha 5 anni. La mamma, Trina Martinez, è affetta da disturbi mentali. Abita con Carlitos al primo piano della Torre B di Barragn 214, Nodo 1 nel famigerato quartiere di Ejercito de Los Andes, meglio conosciuto come Fuerte Apache, a Ciudadela, un sobborgo di Buenos Aires. A 200 metri da casa sua c’è la base della banda dei Los Backstreet Boys, gente che ammazza per nulla: «Ricordo che subito dopo il tramonto ci si barricava in casa», ricorda Carlos. Lì, però, vive anche un fruttivendolo, Raimundo Segundo Tevez, marito di Adriana Martinez, sorella della mamma di Carlitos. Il ragazzo va a vivere con loro: è la sua salvezza. Viene “adottato” dalla gente del posto e, grazie alle sue doti calcistiche, gode fin da subito di una sorta di protezione. In qualche occasione rischia la pelle, ma mai perché è il bersaglio diretto della violenza. Di un’infanzia che definire difficile è un eufemismo, porta nella mente ricordi incancellabili, nell’anima una forza e una determinazione altrimenti sconosciute, e sul collo una vistosa cicatrice, sulla quale si è molto favoleggiato. Invece, fu solo il prodotto di un atto maldestro, commesso la volta in cui si rovesciò addosso una teiera di acqua bollente.