Alessandra Arachi, Style marzo 2014, 26 febbraio 2014
NICCOLO’ FERRAGAMO
Il suo sorriso; come muove le mani nell’aria mentre parla; l’inflessione toscana della sua voce: benvenuti nel meraviglioso mondo del giovane Nick. Al secolo: Niccolò Ferragamo, classe 1991, 186 centimetri di altezza, una giornata che tra lavoro e studio finisce dopo l’una di notte e ricomincia prima delle sette del mattino. Stargli dietro, garantito, non è facile. «Tendo a non andare mai nello stesso posto» spiega Niccolò, e poco importa che adesso stia parlando del posto da scegliere per andare a sciare, cascasse il mondo, almeno una settimana ogni anno. Niccolò Ferragamo tende a non andare mai nello stesso posto così, in generale. Basta vedere i suoi studi universitari: tra Pisa, Milano e Londra. Per lavorare ha già peregrinato fra Milano e il Sud-Est asiatico, e da quando ha fondato la sua start-up è ubiquo. E di stoffa ne ha da vendere: in senso figurato (è già stato inglobato nella più grande società al mondo che investe soltanto su giovanissimi pionieri e probabili futuri miliardari), ma anche in senso proprio: il cognome che porta è una garanzia nell’alta moda mondiale. Lui di questo cognome importante preferisce tenersi stretto il senso del rigore e la grande capacità di lavoro che caratterizza la dinastia. Con orgoglio. Dice: «Nonno Jerry ha 84 anni ma tutte le mattine va ancora in ufficio e controlla le calzature, il core business della maison. Non perde un giorno, e nemmeno un colpo». Nonno Jerry è il papà di suo papà Stefano, ma anche il cugino di Ferruccio, che è uno dei sei figli del fondatore Salvatore e oggi anche presidente della Ferragamo. Per inciso: Ferruccio è pure il padrino di Niccolò. Voi non avreste avuto la tentazione di approfittare, almeno un po’, di cotanto ben di Dio?
Lei, Niccolò, si è appoggiato alla sua famiglia per cominciare l’attività imprenditoriale? Alle persone a cui voglio bene non voglio, e non riesco, a chiedere soldi.
E quindi? Come ha fatto allora tre anni fa quando ha deciso di aprire la sua start-up? Le saranno serviti dei finanziamenti... Già per far partire Kiwi Local avevo bisogno di 350 mila euro. Così ho deciso di partecipare a un concorso di piani business e mi sono lanciato in una raccolta fondi pubblica.
Perciò ha trovato i suoi 350 mila euro... Veramente sono arrivato quasi a un milione di euro, ormai. E nell’azienda oggi ci sono 12 dipendenti, a tempo pieno. Volere è potere, me lo ha insegnato nonno Jerry. Lui è nato negli Stati Uniti da emigrati italiani proprio nell’anno del crollo, il 1929. Poi, diventato orfano, è arrivato in Italia, in un paesino sperduto vicino ad Avellino. Da lì la scalata. Se ce l’ha fatta il nonno ce la devo fare anche io, che invece sono un privilegiato dalla vita.
Kiwi, il nome della sua start-up, viene da quel piccolo frutto, peloso e marrone fuori, e morbido e verde dentro? Ma no! Il Kiwi è un animaletto neozelandese che dovrebbe essere un volatile ma non può volare perché non ha le ali. È l’animale simbolo della Nuova Zelanda, è un po’ sfigato, per questo mi è piaciuto. Anche Roberto Ruggeri, l’investitore che ha messo più soldi di tutti nel progetto, si è divertito sentendo qual era l’origine del nome. Lui è quello che ha inventato Directa. it, il sito di connessione per i mercati finanziari. Un autentico genio.
Vabbé, ma questa sua app, Kiwi Local, a cosa serve? A cercare le persone vicino a te che ti assomigliano, l’intento è di portare il web fuori dal tablet, dai computer. Cioè le persone le cerchi con il computer, ma poi le incontri davvero, fisicamente, nel mondo reale. Un po’ il contrario di facebook.
E come le è venuta questa idea? Ero in Toscana, a Punta Ala, con uno dei miei migliori amici, Lorenzo detto Peg, e all’unisono ci siamo resi conto di non conoscere nessun altro lì. Ho pensato: sarebbe bello incontrare qualcuno, ma non qualcuno a caso, non limitarsi nella selezione all’aspetto fisico. Avrei voluto che le persone su quella spiaggia portassero una maglietta con sopra stampate tutte le informazioni relative alla loro personalità, ai gusti, agli interessi. Ecco dunque Kiwi Local; è nata così, come fosse quella maglietta.
E adesso? Adesso ho un team fantastico con Andrea, Mario, Giulia, Massimo, Thomas, Gigi e poi Riccardo, Riccardo Beatrici, il miglior grafico che abbia mai incontrato. Con lui lavoriamo come avrebbe voluto Steve Jobs: siamo affamati, siamo folli. Non ci siamo mai incontrati in tre anni di lavoro, ma visti soltanto su Skype.
E il futuro di Kiwi? Dopo quasi tre anni di lavoro, siamo finalmente pronti al salto di qualità: la gestione di comunità. Intesa in senso lato, spazia dai partiti politici alle società di calcio. Con un partito politico e con una squadra di calcio siamo già pronti per firmare sostanziosi contratti. Non dico i nomi, per scaramanzia.
Quante ore lavora al giorno? Variabile, a secondo di quanto devo studiare. Sto finendo il master tra la Bocconi a Milano e la London School of Economics a Londra, anche se adesso sono arrivato alla discussione della tesi e quindi posso dedicarmi a Kiwi: succede che io ci stia dietro anche per 15-16 ore al giorno. Quando ero in Jp Morgan lavoravo meno.
Quando è stato in Jp Morgan? Nell’estate del 2012. Avevo appena preso la laurea triennale alla Scuola Sant’Anna di Pisa.
Ma non aveva 21 anni nell’estate 2012? Mi sono laureato in due anni e mezzo.
E per la Jp Morgan ha avuto una raccomandazione? Una spinta? Piccola... Nulla. Ho mandato il curriculum, mi hanno chiamato per un colloquio e mi hanno assunto. Punto. Lo so che suona strano ma esistono posti in Italia dove le raccomandazioni non funzionano. La Jp Morgan è uno di questi.
Volere è potere... Già. Ma ci sono rimasto tre mesi in Jp Morgan, poi mi sono dedicato a Kiwi. Facevo in giro le presentazioni per raccogliere fondi. Finché un giorno a un incontro in Bocconi è arrivato un inviato del gruppo Ambrosetti ad ascoltarmi.
E cosa è successo? Mi ha proposto di fare il relatore a Cernobbio. E mi ha chiesto di entrare nella Kairos Society.
Che sarebbe? Una società no profit mondiale che promuove le start-up di imprenditori rigorosamente under 30.
E tutti rigorosamente super dotati. Non si entra per caso nella Kairos Society: è vero che ci sono mentori del calibro di Bill Gates e del governatore di New York David Patterson? Si, anche molti altri. E ogni anno gli organizzatori della società mettono a disposizione Wall Street, in esclusiva, per una riunione di tutti gli iscritti mondiali.
Scuola per piccoli miliardari che crescono. Ma Niccolò Ferragamo ha anche una vita privata? Certo.
Una fidanzata? Lisa, conosciuta in Bocconi. Stiamo insieme da un anno mezzo.
E la sera uscite? Vi divertite? Andate alle feste? Veramente Lisa vive a Parigi, adesso. Frequenta la Hec, la migliore scuola di finanza francese. Ci si vede quando si può.
Trasgressioni? Non sono il mio genere, se intendiamo lo sballo distruttivo. So divertirmi senza bisogno di questo.
E quando non si può? Niccolò esce? Va alle feste? Le feste è una roba dei tempi del liceo, quando vivevo a Firenze ed ero scatenato: organizzavo party che erano veri e propri eventi da due-tre mila persone. Ora preferisco riunioni per pochi; una decina è il numero ideale. Pochi amici ma buoni.
Le piace bere? Vino sì, il rosso, meglio se quello toscano. Ma non esagero mai. Un po’ è il mio istinto, un po’ è disciplina.
Il libro preferito? Le memorie di Adriano.
Il film? C’era una volta in America.
Comunque la sera esce quando è a Milano oppure a Londra o a Firenze? Ma certo. Conosco un mucchio di gente, del resto. E poi non ho problemi se devo saltare qualche ora di sonno, ma non fatemi saltare un pasto.
Mangerà pure molto, eppure è piuttosto longilineo... Faccio tanto sport. Lo sci, prima di tutto: non posso saltare una settimana bianca, qualsiasi cosa succeda. Poi vado in canoa: sono arrivato al quarto posto in nazionale. E mi piace nuotare.
Musica? Beethoven ma anche Ligabue.
Dai gusti sembra di parlare con un 50enne. Cos’è, Niccolò: un ragazzo che guarda al futuro con la testa rivolta al passato? Diciamo alle tradizioni.
Ovvero? Io tengo sottocchio le calzature della dinastia di famiglia. Sto studiando strategie e sviluppo. E mi occupo molto di digitale: entro il 2020 il mondo della moda viaggerà praticamente tutto online.