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 2014  febbraio 25 Martedì calendario

AIDS, CON IL BOOM DEL VIAGRA SI AMMALANO GLI OVER 60

Sono lontani i tempi in cui venivamo bombardati da spot, consigli medici e interviste per la prevenzione del virus dell’Hiv. Individuato nel 1983 come causa dell’Aids (Acquired immune deficiency syndrome), la prima campagna pubblicitaria in Italia è datata 1988. Titolo: «Aids: se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide». Lo spot, per il quale il ministero della Salute investì ben 12 miliardi, metteva in guardia dicendo che per l’Aids «non esiste ancora una cura», poi elencava i comportamenti non a rischio e parlava di trasmissione sessuale.
Da allora per l’Hiv è stata trovata una cura farmacologica (i farmaci antiretrovirali, in grado di ridurre la replicazione di nuove copie di virus ma non di eliminarlo), che di fatto l’ha trasformata in una malattia cronica, come il diabete o l’ipertensione. E non si muore più come una volta. Insomma, è possibile che conosciate una persona che ha contratto il virus dell’Hiv e che non lo sappiate neanche. Così anche la comunicazione sulla malattia ha allentato la presa. Eppure nonostante per anni si sia parlato di prevenzione, le persone che ogni anno contraggono il virus non calano affatto. Anche in Italia. Secondo i dati del Centro Operativo Aids (Coa) dell’Istituto superiore di sanità, nel 2012 i nuovi casi di Hiv diagnosticati nel nostro Paese sono stati circa 4mila, 700 solo a Milano.
Rosaria Iardino è una consigliera comunale del Partito democratico a Milano. Va avanti e indietro tra un appuntamento e l’altro, e il suo smartphone squilla di continuo. Donna energica, omosessuale dichiarata e mamma di due bambine, non lo diresti mai che è una persona con l’Hiv. Oggi ha 47 anni, ed è sieropositiva da quando ne aveva 18. È una “long survivor”, e come lei lo sono almeno altri 150mila italiani. Presidente onorario di Nps Italia onlus, Network italiano persone positive, da 30 anni convive con l’Hiv, battendosi per la conoscenza dell’Aids contro le discriminazioni sociali. «Prendo due grammi di farmaci al giorno, per il resto conduco una vita normale», racconta nel suo ufficio con vista sulla Galleria Vittorio Emanuele. Appesa al muro la foto in cui consegna il nastro rosso simbolo della lotta contro l’Aids a Papa Giovanni Paolo II.
«I numeri sulla contrazione del virus sono costanti da sette-otto anni a questa parte», dice, «e parliamo di persone a cui è stata diagnosticata l’infezione perché sono andate a fare il test. Ma si stima che ci siano altre 120mila persone in Italia che non sanno di avere l’Hiv. Un esercito che non sa di aver contratto il virus, e che continua a infettare in modo inconsapevole».
La maggior parte delle persone a cui è stata diagnosticata l’infezione da Hiv nel 2012 aveva tra i 30 e i 39 anni, ma si presume quindi che potrebbero aver contratto il virus anni prima, visto il ritardo con cui viene eseguito il test. «I dati mostrano che i nuovi casi di infezione da Hiv non sono molto elevati tra i più giovani, ma solo perché il test in media viene eseguito dieci anni dopo dall’origine dell’infezione», spiega Rosaria. «Il dato va letto diversamente: chi scopre di avere il virus a trenta, quarant’anni, in realtà lo ha contratto a 20-25 anni. Il problema è che i giovani non sanno di essere infetti. Sia per un problema di comunicazione sia culturale, oggi si preferisce usare la pillola invece del profilattico. Il discorso è questo: prevengono la gravidanza, ma non pensano che così sono vulnerabili a malattie sessualmente trasmissibili, che infatti sono in aumento, dal papilloma alla gonorrea».
Dalla metà degli anni Ottanta a oggi, in effetti, è cambiata anche la modalità di diffusione del virus: è calata la percentuale di trasmissione “da buco” tra tossicodipendenti (passando dal 76,2% nel 1985 al 5,3% nel 2012), mentre sono aumentati i casi dovuti a trasmissione sessuale (passati dall’1,7% nel 1985 al 42,7% nel 2012 nel caso degli eterosessuali; e dal 6,3% al 37,9% per gli omosessuali).
Fatto assolutamente nuovo: è in aumento anche la diffusione tra gli over 60, soprattutto maschi. «Da quando sono disponibili farmaci come il viagra», racconta Rosaria Iardino, «gli uomini sopra i 60 anni hanno ripreso un’attività sessuale, assolutamente legittima, ma che nella maggior parte dei casi non avviene con la moglie. Si tratta soprattutto di uomini con una pensione medio-alta, che non si possono permettere una prostituta professionista e vanno da una occasionale che costa meno. E di sicuro a quell’età non usano il profilattico». Da giugno 2013, poi, l’introduzione del generico della pillola blu ha allargato ancora di più il mercato di consumatori, avendo ridotto il prezzo del farmaco da un prezzo medio dai 50 euro del farmaco “griffato” ai 11-30 euro del generico a seconda della dose. Il rapporto Coa a questo proposito mostra come, rispetto al 1992 sia aumentata in modo rilevante la quota di casi di Aids sopra i 40 anni: per i maschi dal 17,6% nel 1992 al 66,0% nel 2012, e per le femmine dal 9,6% nel 1992 al 51,1% nel 2012. Anche in questa fascia di età la diagnosi avviene in una fase avanzata della malattia, perché difficilmente si pensa di aver contratto il virus.
Come si legge ancora nel rapporto, la classificazione delle “nuove diagnosi di infezione da Hiv” include sia infezioni recenti (meno di 6 mesi) sia tardive. Per avere una stima più precisa della diagnosi, alcune regioni, come il Piemonte, l’Umbria e la Provincia Autonoma di Trento, hanno introdotto il test di avidità anticorpale (Ai), che permette di identificare le infezioni acquisite nell’ultimo semestre prima della diagnosi. Quello che è emerso è che appena il 25% delle nuove diagnosi era recente, mentre le restanti risalivano a molti anni prima. Il virus, infatti, una volta penetrato all’interno dell’organismo umano, può restare silente anche per anni, senza dare alcun sintomo. L’infezione passa attraverso diversi stadi, suddivisi dall’Organizzazione mondiale della sanità in base alla quantità di linfociti, CD4+, presenti nel sangue. I CD4 sono le cellule bersaglio dell’Hiv, che vengono attaccate ed eliminate dal virus. Così facendo, il virus compromette il sistema immunitario dell’individuo, rendendolo vulnerabile a infezioni curate più facilmente nelle persone sane. Quando la conta di CD4 scende sotto i 200/µl, si arriva allo stadio 4 o Aids, in cui il sistema immunitario non è praticamente più in grado di proteggere l’organismo.
Ma al test si arriva spesso quando è ormai troppo tardi: viene eseguito nel 25% dei casi per la presenza di sintomi HIV-correlati, nel 16,5% in seguito a un comportamento a rischio non specificato e nel 15% dei casi in seguito a rapporti sessuali non protetti. Nella maggior parte dei casi, quindi, si arriva alla diagnosi anni dopo, quando l’infezione è già in fase tardiva: nel 2012, il 37,5% delle persone con una nuova diagnosi di infezione da Hiv avevano un numero di linfociti CD4 nel sangue inferiore a 200 cell/μl. Numeri che sono simili in tutta Europa e che in Italia sono più accentuati nelle fasce d’età più elevate, e in particolare al Centro Sud. Poche persone, insomma, soprattutto nel Mezzogiorno, scelgono di fare il test dell’Hiv, che pure in Italia è gratuito.
La diagnosi tardiva, ovviamente, ha diverse conseguenze negative: per prima cosa compromette la salute di chi è sieropositivo, che quindi non ha neanche l’opportunità di iniziare per tempo la terapia antiretrovirale (Art) che abbassa la presenza del virus nel sangue e anche la sua capacità infettiva, rischiando di giungere a una fase avanzata della malattia più velocemente e di compromettere il pieno recupero immunologico. Dall’altra comporta un aumento della diffusione del virus, perché non si sa di essere infetti e non si evitano i comportamenti a rischio.
In Italia il primo caso di Aids venne individuato nel 1982. In quegli anni chi si ammalava era destinato a morire: oltre 1.600 decessi nel 1988, fino al picco di 4.568 nel 1995 (nel 2010 la cifra era scesa a 41). Nel 1985, poi, la morte di Rock Hudson segnò una svolta: l’attore fu la vittima numero 6945 dell’Aids negli Usa. Per la prima volta veniva colpito un personaggio pubblico, un divo hollywoodiano, e la gravità della situazione fu sotto gli occhi di tutti.
Anche a Rosaria Iardino a metà anni Ottanta i medici avevano detto che non ce l’avrebbe fatta. Ma lei, che è una donna forte, e si vede dal suo modo di parlare, non molla. Nel 1992, a 25 anni, bacia sulla bocca l’immunologo Ferdinando Aiuti, per dimostrare all’Italia intera terrorizzata dal virus che l’Hiv non si trasmetteva con la saliva né con una stretta di mano. Finché nel 1996 arrivano i farmaci antiretrovirali. Pillole che hanno cambiato la sua vita, ma anche quella di tutti gli ammalati di Hiv/Aids. E se stai bene, non solo non sei più solo un ammalato, puoi anche essere un lavoratore, un compagno, un padre o una madre. Come è successo a lei. Certo, dice, «prendere questi farmaci per tutta la vita ti affatica, sento che sto invecchiando un po’ più rapidamente. Ma per il resto va tutto bene. Ho due figlie che mi danno energia, con le quali adotto le normali norme igieniche. Anzi, devo dire che quando la piccola torna dal nido faccio un check perché è lei che può attaccare qualcosa a me».
Ma come si fa a diventare mamma? «Esiste la procreazione medicalmente assistita per cui si fa lo sperm washing laddove c’è una coppia concordante e laddove sono entrambi Hiv positivi», risponde Rosaria. «Laddove c’è uno positivo e uno negativo, per chi è positivo ci sono delle applicazioni per ridurre la percentuale di trasmissione». Un tempo era del 25%, ora è dell’1-2 per cento. «Ma con me il problema non si pone», scherza, «perché è stata la mia compagna a fare da madre biologica, ma solo perché il mio ovocita era più anziano di quello di Chiara che è sei anni più giovane di me. È indipendente dall’Hiv. Oggi si può e si devono fare figli se uno lo vuole».
La maggior parte dei bambini positivi all’Hiv acquisisce verticalmente l’infezione da madri infette. Il 30-50% dei casi di trasmissione sono causati dall’allattamento, i rimanenti si verificano in utero, principalmente nel terzo trimestre di gravidanza, oppure durante il parto, per via del contatto con le secrezioni vaginali e il sangue materno infetti. Per questo l’utilizzo del latte in polvere, la scelta del parto cesareo e la somministrazione di farmaci antiretrovirali durante la gravidanza, misure disponibili purtroppo solo nei Paesi economicamente avanzati, possono essere usati come strumenti di prevenzione. Seguendo queste norme, il rischio di trasmissione verticale scende appunto all’1-2 per cento.
«Le bimbe sanno del mio stato di salute», racconta Rosaria. «La più grande quando vede che al mattino non prendo le medicine mi sgrida: “Rò, cosa fai? Non prendi i farmaci!”. E alla più grande, che ha tredici anni, ho già insegnato che bisogna usare il preservativo. Abbiamo fatto una simulazione con una banana. E da allora quando mangia la banana, prima la taglia a fette!».
Sì, perché al di là degli scherzi in famiglia, il problema è che «di Aids non si parla più». Con la crisi, «abbiamo avuto un arretramento globale rispetto al concetto di sessualità e diritti, tutta quella parte che guardava al futuro, a un nuovo modo di vivere. C’è stato un arretramento verso il conservatorismo. Anche nei genitori, la priorità del dialogo non è “guarda in prospettiva”, ma “tuteliamo quello che abbiamo”». E tra i ragazzi, soprattutto, non c’è molta conoscenza di cosa sia l’Hiv. «Pensano che sia un virus molto africano, ci sono comunque i farmaci, non è più sensazionalistico com’era un tempo. Ma non sanno che non morendo più si riduce l’anello sociale di distanza. Magari c’hai l’amico di tuo zio che non è morto di Hiv però tu non lo sai, perché le persone con Hiv non dicono mica “Ciao mi chiamo Massimo e ho l’Hiv”. Si allontana il connubio tra infezione-Aids-morte, ma il rischio di infezione resta sempre lì».
Eppure quella che una volta era la peste bianca, la stessa peste che portò Rosaria a 22 anni a essere licenziata dal ristorante in cui lavorava per via della sua malattia, «ora non è più così stigmatizzata a livello sociale». Ma sul lavoro il blocco resta. «Se sei Hiv positivo e lo dichiari non trovi lavoro». La legge numero 135 del 1990 prevede il divieto di svolgere indagini per accertare lo stato di sieropositività dei dipendenti da parte del datore di lavoro in vista dell’assunzione. Cosa ribadita, dopo varie richieste di chiarimenti, il 12 aprile del 2013 in una circolare dei ministeri della Salute e del Lavoro. Ma «quasi tutti chiedono il test hiv ed epatite per l’assunzione», racconta Rosaria. «Soprattutto se vai nelle agenzie interinali, dove loro devono dare un soggetto sano perché la reputazione dell’agenzia è che più ti do soggetti sani più aumento la mia reputazione. Non ti do soggetti che poi stanno a casa. Noi abbiamo fatto una battaglia contro una grossa catena di supermercati e abbiamo vinto. Non siamo andati in giudizio perché hanno capito che la loro reputazione veniva molto messa in discussione e hanno tolto il test dell’Hiv».
Ma sebbene la terapia abbia trasformato una malattia che negli anni Ottanta era mortale in cronica, prevenire resta ancora meglio che curare. Sopravvivere non significa aver vinto e l’Aids non deve smettere di far paura. Anche perché i farmaci, come racconta Rosaria, hanno molti effetti collaterali, devono essere assunti ogni giorno e il virus può anche mostrare resistenza. Per di più, la terapia è molto costosa e non tutti i Servizi sanitari nazionali sono in grado di sostenerne la spesa. «In Italia lo stato spende 10mila euro all’anno per paziente, tra farmaci e visite», prosegue Rosaria «e noi non paghiamo niente, ma non è detto in futuro sarà sempre così. Si inizia a sentir parlare di copayment, in cui una parte della spesa viene sostenuta dallo Stato e una parte dal paziente, non solo per i pazienti con Hiv, ma per tutti i malati cronici. Per questo ho già iniziato una battaglia contro un ipotetico copayment e ho proposto di abbassare il prezzo del profilattico: meglio un profilattico a un euro che 10mila euro di terapia per paziente».