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 2014  febbraio 26 Mercoledì calendario

L’ARTE VERA DEI GRANDI FALSARI

Quanti falsi conta il mercato dell’ar­te? Nel dicembre scor­so, il nucleo Tutela patrimonio cul­turale dei Carabinieri ha seque­strato a Genova 181 dipinti contraffatti, per un valore di 10 milio­ni di euro. Nel 2012 sono state 4.000 le opere poste sotto sequestro, per complessivi 80 milioni di euro. Aprile 2013: il settimanale Der Spiegel racconta la vita avven­turosa di Robert Driessen, che per un trenten­nio ha immesso sul mercato copie delle scultu­re di Giacometti spacciandole per vere. È inve­ce il quotidiano Bild a descrivere il processo di Colonia, celebrato sul finire del 2011 contro quattro falsari che hanno incassato quasi 16 mi­lioni di euro dalla vendita di 43 dipinti falsi di maestri del Novecento.
A volte gli stessi autori, o i loro eredi, si presta­no ad autenticare opere di dubbio valore; altre volte sono i critici a prendere lucciole per lan­terne, abbagliati dalla scoperta sensazionale. Così si può leggere la “beffa di Livorno”, consu­mata trent’anni fa, nell’estate 1984, quando nei Fossi medicei che attraversano la città vennero ripescate tre sculture attribuite a Modigliani: leggenda vuole, infatti, che l’artista le avesse scaraventate lì in un impeto di rabbia. Le pietre e­rano state scolpite in realtà da tre ventenni: u­no di loro, Pier Francesco Ferrucci, è oggi vice direttore a Milano dell’Istituto europeo di on­cologia. Gli esperti all’epoca si divisero in due partiti: Modí veri, capeggiati da Carlo Giulio Argan; e Modí falsi, tra cui Federico Zeri.
Ma, visto che si è scatenata una specie di Ver­meer- mania grazie alla presenza a Bologna di La ragazza con l’orecchino di perla, è bene ricorda­re un episodio entrato a far parte della storia dell’arte. Qualche anno fa il Museum Boijmans van Beuningen di Rotterdam ha dedicato una rassegna a Han van Meegeren (1889-1947), po­nendo al centro dell’esposizione un’opera che appartiene alla collezione permanente del mu­seo e che raffigura l’episodio evangelico della Cena in Emmaus. Il visitatore, dinanzi a questo dipinto, si trovava in parte spiazzato. La dida­scalia riportava il titolo in inglese: The Supper at Emmaus ; il nome dell’autore, van Meegeren; l’anno di composizione, 1936-1937; e il suppor­to materico: «Old canvas relined», tela antica rifoderata.
L’opera, che riecheggia l’omonima composi­zione di Caravaggio conservata a Londra, si con­traddistingue per la sospensione temporale del­la scena, la luce che penetra da una finestra la­terale spargendosi nell’ambiente circostante, l’esile compattezza dei colori, l’espressione dei volti e la cura dei particolari, tra cui la cucitura in rilievo delle tuniche degli Apostoli, il pane spezzato, il riflesso luminoso dei bicchieri sulla tavola. Tutti elementi che potevano suggerire, al perplesso visitatore, la mano di Vermeer. E la conferma gli giungeva dalla storia stessa del di­pinto. Il quale, in un articolo pubblicato nel 1937 sul Burlington Magazine, veniva definito da A­braham Bredius, storico dell’arte tra i più auto­revoli dell’epoca: «Il capolavoro di Johannes Ver­meer di Delft».
Fu un avvocato, sedicente fiduciario di una ric­ca famiglia, a contattare Bredius per presentar­gli il quadro, destando l’entusiasmo dello stu­dioso ottantatreenne, che ammise: «È un mo­mento meraviglioso, nella vita di un amante del­­l’arte, allorché si trova di fronte a un dipinto fi­nora sconosciuto di un grande maestro, con la tela intatta e senza alcun restauro, come se a­vesse appena lasciato lo studio del pittore». Fu così sancita l’unicità della Cena, che indusse l’al­lora direttore del museo di Rotterdam, Dirk Han­nema, ad acquistarla nel 1938. Vermeer ne man­tenne la paternità fino al termine della seconda guerra mondiale, quando si scoprì la mano del vero autore: Han van Meegeren, di professione falsario.
La sua sorprendente abilità lo aveva indotto a specializzarsi sui grandi nomi del Seicento o­landese, di cui produceva opere ex novo rico­piando, con qualche plausibile variante, colori e stile. Si trattava di soggetti differenti dal soli­to, riconducibili però alla sensibilità di questi autori. E per fare ciò si serviva di tela antica, pe­netrando a fondo nella mentalità del periodo. E pensare che, come artista ’autonomo’, van Meegeren era noto per quadri mediocri, con­venzionali o di taglio accademico.
Nel 1938 eseguì a Nizza I giocatori di carte attri­buendoli a Pieter de Hooch; nel ’42 un suo fal­so, ritenuto ovviamente vero, venne battuto al­l’asta per oltre un milione e mezzo di fiorini. Van Meegeren riuscì a vendere sedicenti capolavori del XVII secolo persino al capo delle SS Himm­­ler, per un valore complessivo di cinque milio­ni e mezzo di fiorini. Nel ’43 cedette al feldma­resciallo Göring un Cristo e l’adultera firmato Vermeer, il suo autore preferito, in cambio di duecento dipinti olandesi trafugati dai nazisti. Alla fine della guerra, il capitano inglese Harry Anderson scoprì questa singolare scena sacra nella raccolta personale del feldmaresciallo, risalendo così al nome di van Meegeren. Il quale, imprigionato con l’accusa di collaborazionismo e per evitare l’ergastolo, durante il processo ce­lebrato in Olanda nel 1947 fu costretto a con­fessare: «Vermeer sono io!», rivelando quindi di avere rifilato ai nazisti delle autentiche croste. A riprova delle sue affermazioni, dipinse davanti ai giudici esterrefatti un Gesù nel tempio degno della mano di Jan Vermeer.
La parabola tutta olandese di van Meegeren non è un caso isolato nella storia dei falsi che ac­compagnano da sempre, con la loro deleteria presenza, il mercato dell’arte. A volte queste o­pere riproducono in maniera talmente aderen­te lo stile dell’autore copiato, da apparire più ve­re del vero. Nella prima metà del ’400 il napoletano Colan­tonio, maestro di Antonello da Messina, diven­ne famoso per le imitazioni di dipinti fiammin­ghi, un genere particolarmente in voga ai tem­pi. Luca Giordano si cimentò invece nel ripro­durre Tiziano e Tintoretto, come a dire l’armo­nia e la dissonanza armonica. Giuseppe Guer­ra, allievo del Solimena morto a Roma nel 1761, si distinse nella falsificazione delle pitture pom­peiane, riuscendo a ingannare i maggiori colle­zionisti del secolo. Fu addirittura accusato di a­ver prelevato nottetempo le pitture dagli scavi e, per scagionarsi ed evitare il carcere borboni­co, dovette dar pubblica prova di non essere la­dro bensì falsario.