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 2014  febbraio 26 Mercoledì calendario

ITALO CUCCI: «INSIEME SIAMO USCITI DAL BUIO»

Il mondo spettatore spesso ignora che, dietro una maschera popolare della tv, si può celare la trama assai comune del­la commedia umana. Che a volte (come per tanti), può assumere i tratti della tra­gedia.
Quella per esempio di un padre, Italo Cucci, che fa appena in tempo a tornare da in­viato al Mundial di calcio del 1978 (in cui ha raccontato un’Argentina vincente sotto ditta­tura di Videla) e deve fare i conti con la perdita di una figlia tredicenne, Francesca, uccisa dal­la leucemia. «Papà, perché non mi hai detto che dovevo morire?», è l’ultima domanda che Fran­cesca fece prima di volare con gli angeli come lei, il 17 giugno 1979. Una domanda rimasta so­spesa, perché anche il genitore più saggio e a­morevole non può umanamente darla.
Però papà Italo non si è arreso e non ha mai smesso di cercare di trovare il senso di quel do­lore. Assieme alla moglie Grazia ha continuato a rispondere alle domande di Benedetta, rima­sta figlia unica fino a quando l’estate prima di un altro Mundial, quello del 1982 del trionfo degli azzurri del Vecio Bearzot (difeso a spada tratta dal Cucci direttore del Guerin Sporti­vo ), non è arrivato Ignazio. E con “Igno” è iniziata una partita esistenziale che assieme, padre e figlio, ora hanno deciso di raccontare in Elettro­shock. Sono ancora vivo. E la chia­mano depressione (Minerva Edi­zioni). Un titolo che sintetizza lo stra­zio della malattia di un ragazzo e due sottotitoli che indicano la lotta di chi ce l’ha fatta a non soccombere al «male oscuro» e una speranza per tutti coloro, pazienti e famiglie, as­sediati dalla depressione.
Un libro che mette a confronto il figlio arrivato dopo la morte della sorel­lina, e al quale l’ottusa e dila­gante insensibilità ha rinfacciato di esse­re il «sostituto», e un padre personaggio pubblico impegna­to per mestiere a dare rispo­ste all’u­ni­verso mediatico prima che a quello domestico. Da qui lo scontro, che arriva puntuale in quasi tutti i rapporti genitori e figli. Mali di vivere a­dolescenziali, ai quali Ignazio ha reagito e che non gli hanno impedito di crescere inseguen­do palloni, sogni, amori e di arricchire un ba­gaglio culturale che lo ha reso dottore in Scien­ze giuridiche, economiche e manageriali dello Sport, discutendo, nel nome del padre, una te­si di laurea su «Il Gladiatore. Così nasce lo Sport».
A fare crollare il muro di si­lenzio alzatosi con i geni­tori, ad un tratto ci ha pensato il rumore del­le «Voci». La mente di Ignazio credeva che fosse più naturale a­vere un rapporto alla pari con gli scrittori che dimoravano negli scaffali della sua libre­ria, partecipare da invi­tato di Obama a una sera­ta alla Casa Bianca e addirit­tura svegliarsi al mattino e sentirsi Alessan­dro Magno o Frank Si­natra, piutto­sto che dia­logare con suo padre, al quale giunto allo stre­mo ha lanciato il suo rimprovero disperato: «Papà, tu non c’eri quando è venuto il buio». E­rano le tenebre in cui brancolava, triste e a vol­te eccessivamente euforico, ma comunque sempre perso e solitario, “Ignazio il Sognatore”. «Quanto tempo ho passato senza ridere, face­vo solo ridere gli altri con discorsi strampalati e non so se erano veri, spontanei o quella follia che a volte mi prendeva quando mi rintrona­vano nella testa le Voci e voi a guardarmi tristi come se poverino parlassi da solo e invece me ne dicevano tante, spesso con cattiveria...», scri­ve il ragazzo di colpo abbandonato dagli «ami­ci che credevo veri, come se fossi un mostro pe­ricoloso ». Per debellare quel “mostro” che ave­va preso in ostaggio sogni, pensieri e speranze nel futuro, ci sono volute le altrettanto mo­struose diagnosi, sempre troppo parziali e ina­deguate per chi per dieci anni ha vissuto a un passo dall’abisso al quale conduce la depres­sione. Tanti medici pensano di colmare quel vuoto, che troppe volte è dovuto alla richiesta di attenzione e di un gesto d’affetto, con cock­tail massicci di psicofarmaci per debellare quel­la che fa comodo archiviare scientificamente come «schizofrenìa».
L’ultima stazione in salita di un calva­rio familiare è la clinica Sant’Anna di Pisa, dove opera lo psichiatra Giovanni Battista Cassano. Su un ritaglio del suo «pane quotidiano», un articolo di gior­nale, papà Italo intravede uno spiraglio di luce nelle parole del professor Cassano: «Si ricorre allo stereotipo della schizofrenia, perché ab­biamo perso la capacità di stare col malato, e riconoscere i veri sintomi della malattia. Ma il termine è superato, grossolano, traumatico». Per rimuovere le “Voci” che tormentano Igna­zio, il luminare però prospetta la terapia elet­troconvulsivante, ovvero il non meno trauma­tico - solo a dirsi - elettroshock. Di quelle sedu­te e di quei giorni in clinica, Ignazio ricorda sol­tanto «siringhe su siringhe e preghiere su pre­ghiere », ma soprattutto la complicità di un a­mico ritrovato, suo padre. Oggi “Igno” sta meglio e l’unica «Voce» che ascolta ancora non lo spaventa, perché è quella di un altro amico: «Stefano che ho adorato e che mi adorava, che ha chiuso presto la sua vi­ta e azzerato i suoi problemi dopo un’overdo­se ». Poteva finire così anche la sua storia, ma l’a­more della famiglia, prima dell’elettroshock e del professor Cassano, l’ha salvato. I suoi ricor­di non si sono bruciati, anzi l’acqua della me­moria ha fatto maturare nuovi progetti e gli ha permesso di aprire quel diario che era rimasto segreto. «Non sono nessuno e mi basta quel poco che ho. Passo ore al computer, scrivo, e via una email a papà, lo raggiungo dapper­tutto, a ogni ora, lui che viaggia incessantemente per reggermi la vita e la speranza. Mi risponde: “Questa m’è piaciuta”. E la mia giornata è mi­gliore », annota Ignazio, che adesso le giornate le passa nella sua Isola. Con la cagnolina Bimba va a passeggiare da­vanti al mare di Pantelleria, dove gli isolani praticano ancora l’arte dell’incontro e san­no come voler bene a quel loro amico sbarcato dal continente, al quale vanno a chiedere consigli di lettura e libri in pre­stito: Ignazio è bibliotecario del Centro Culturale Giamporcaro. Leggere e scri­vere è la terapia che preferisce e che gli ha trasmesso suo padre, che a sua vol­ta della malattia del figlio ha capito che «la prima medicina per la depressione è la verità. Poi la psichiatria. Noi ci ab­biamo messo anche la fede».