Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 26 Mercoledì calendario

Nel giorno della fiducia bis al governo, il ritorno a Montecitorio di Pierluigi Bersani, perfettamente ristabilito dopo il malore di inizio d’anno, ha sollevato una comprensibile ondata di commozione e un lungo applauso dell’aula, piena come nelle grandi occasioni

Nel giorno della fiducia bis al governo, il ritorno a Montecitorio di Pierluigi Bersani, perfettamente ristabilito dopo il malore di inizio d’anno, ha sollevato una comprensibile ondata di commozione e un lungo applauso dell’aula, piena come nelle grandi occasioni. Abbracciato con grande calore da Enrico Letta, anche lui rientrato alla Camera da semplice deputato, Bersani ha votato la fiducia, ma ha detto che il governo da oggi verrà misurato sullo spread tra parole e fatti. Gli hanno fatto eco una serie di interviste di esponenti del partito a lui vicini, come Fassina e Zoggia, a conferma che la minoranza Democrat, uscita battuta al congresso, dopo aver spinto Renzi verso Palazzo Chigi, defenestrando Letta, si prepara adesso a un appoggio critico al governo e a porre in modo sempre più insistente la questione del doppio incarico di segretario e presidente del consiglio. Impegno troppo gravoso, a giudizio dei bersaniani, che richiederebbe un diverso assetto di vertice del Pd: nell’immediato una gestione collegiale, per arrivare in tempi brevi a nominare un reggente, diverso ovviamente da Renzi e dal portavoce della segreteria Guerini. Prima ancora di conoscere l’opinione di Renzi al proposito, che certo non tarderà, converrà ricordare che una simile questione si era già posta all’interno della Democrazia Cristiana, nel mezzo secolo circa di vita del partito-Stato attorno a cui ruotava la Prima Repubblica. Già alla fine degli Anni Cinquanta il doppio (e a un certo punto anche triplo, con l’aggiunta dell’interim agli esteri) incarico era costato caro a Fanfani. E a conclusione degli Ottanta, alla vigilia cioè della fine, non aveva portato bene a De Mita riproporlo. In entrambi i i casi i segretari-presidenti del consiglio avevano perso tutto, segreteria e presidenza del consiglio. E la Dc aveva rapidamente ristabilito il regime di separazione delle cariche e dell’alternanza tra segreteria e guida del governo. Era diventato una regola fissa infatti che al segretario defenestrato, più o meno ogni due tre anni (ma De Mita aveva resistito in carica sette), fosse concesso di guidare un esecutivo che in quella lunga stagione durava mediamente nove mesi. Tutto ciò, mentre nel resto d’Europa i leader dei partiti normalmente guidavano i governi. Non è detto, ovviamente, che sia proprio questo il destino che i bersaniani vorrebbero riservare a Renzi. E neppure che sia facile sovvertire gli equilibri congressuali e la forte maggioranza interna su cui il leader può contare. Ma che a riproporre la questione del doppio incarico, così tipicamente democristiana, siano oggi gli eredi del Pci, è abbastanza sorprendente.