Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 25 Martedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - RENZI ALLA CAMERA E IL PROBLEMA DELLE COPERTURE


Cita Aldo Moro, Berlinguer, Scalfaro. Ore 16 e 48: Renzi parla alla Camera, per il discorso sulla fiducia. Scuola, imprese, legge elettorale, la riforma del Titolo V, lotta alla mafia. E l’emergenza occupazionale. Questi i temi toccati. Con una premessa: «Non bastano le riforme costituzionali o elettorali: esiste un’esigenza drammatica, che è quella occupazionale». E poi la conclusione: «Fuori da qui la gente si aspetta che la politica sia un fiume di parole vuoto»

«LEGGE ELETTORALE CHE MANCA» - L’esordio verte però sull’emozione provata entrando a Montecitorio.«Io non sono un onorevole ma voi siete onorevoli, degni di onore. Entrando mi sono detto quanto siate fortunati tutti i giorni, perchè ci facciamo un callo, ma sedete in posto dove grandissimi della nostra storia, di diverse estrazioni politiche e culturali, hanno seduto». E ancora: «La nostra generazione non ha più alibi. Il momento che stiamo vivendo non può farci avvicinare con il senso di chi accusa sempre gli altri» ha detto Renzi. «Il grande dramma di una mancanza di una legge elettorale chiara è il fatto che impedisce al cittadino di dare una responsabilità e una colpa. Per questo governo non ci devono essere alibi, Se non riusciremo la responsabilità sarà mia. Questo non è un atto di coraggio, ma di lealtà».

SEMESTRE UE, «LETTA HA FATTO MOLTO» - «L’Italia non può arrivare in Europa con la stessa piattaforma di problemi che ha da anni - ha detto Renzi - perchè se l’Europa che immaginiamo possa essere messa profondamente in discussione nel semestre, dobbiamo arrivare con le cose fatte». «Il governo guidato da Enrico Letta ha investito molto su questo punto - sostiene Renzi - lo riconosco in modo chiaro e netto al di lá delle facili ironie che sono state fatte oggi nel dibattito, e costituirá un punto di riferimento in questo senso».

LA MATTINATA - A fine discorso non c’è neppure la suspence per il risultato: alla Camera la maggioranza gode di una super maggioranza e il passaggio è poco più di una formalità. Ma anche alla Camera il via libera al nuovo esecutivo è l’occasione per critiche e scambi di accuse. Brunetta, capogruppo di Forza Italia, in mattinata era stato tranchant: «Non ho visto alcun punto del programma. Ho visto dei titoli, e sulla base dei titoli ovviamente noi non possiamo votare nessuna fiducia. La fiducia è una cosa seria, non si dá a scatola chiusa». E nell’intervento pomeridiano, quelle dichiarazioni di voto, ha posto una serie di condizioni, dall’abolizione delle tasse alla separazione delle carriere dei giudici. Ribadendo che «a scatola chiusa no».

Il ritorno di Bersani e Letta, abbracci forzati e sinceri

Il ritorno di Bersani e Letta, abbracci forzati e sinceri
Il ritorno di Bersani e Letta, abbracci forzati e sinceri
Il ritorno di Bersani e Letta, abbracci forzati e sinceri
Il ritorno di Bersani e Letta, abbracci forzati e sinceri
Il ritorno di Bersani e Letta, abbracci forzati e sinceri

IL RITORNO DI LETTA E BERSANI - ùPrima della replica di Renzi erano stati i deputati dei vari schieramenti a farla da protagonisti. Grande attesa per un possibile intervento di Enrico Letta, dopo l’assoluta freddezza con cui ha officiato la cerimonia della campanella per il passaggio di consegne. E grande entusiasmo per il ritorno di Pier Luigi Bersani, alla sua prima apparizione istituzionale dopo il malore delle scorse settimane. Lo stesso Renzi ha omaggiato l’ex segretario del Pd, sia in aula sia via twitter, anche se Bersani ha precisato di essersi presentato a Montecitorio «per abbracciare Letta». Abbraccio che è effettivamente avvenuto pochi minuti dopo, quando l’ex premier ha fatto il suo ingresso nell’emiciclo, tra gli applausi dei deputati del Pd.

«FIGLI DI TROIKA» - Dalle opposizioni, invece, non sono stati risparmiati affondi nei confronti del nuovo governo. «Tu, Matteo Renzi, e il ministro Padoan siete figli di troika - ha detto ad esempio Carlo Sibilia, deputato del M5S -. I punti del programma di governo erano infatti contenuti già molti mesi fa in un documento della Ubs». Non tutte le opposizioni hanno però sparato alzo zero. La deputata di Forza Italia Michaela Biancofiore , fedelissima di Silvio Berlusconi, ha definito Renzi «gagliardo» e sottolineato che «non è radical chic, parla alla pancia del Paese come noi».

M5S a Renzi: «Figlio di troika»
Invia contenuto via mail
Link:

GLI INTERVENTI - Grande attesa c’era anche per la posizione della minoranza del Pd, quella che fin dall’inizio ha criticato la scelta di liquidare Enrico Letta. «Ciao Matteo, stai sbagliando - ha detto Pippo Civati, già avversario di Renzi alle primarie ma suo alleato alla prima Leopolda, agli albori del movimento di "rottamazione" interno al partito -. Tuttavia ho deciso di votare la fiducia». Anche l’esponente pd Stefano Fassina ha annunciato il suo sì, seppure critico: «Il mio voto non è il conferimento di una delega in bianco. Sul piano programmatico vi è la più ampia disponibilità possibile ma valuterò esclusivamente il merito dei provvedimenti».

Pippo Civati: "Ciao Matteo, stai sbagliando, ma ho deciso di votare la fiducia"
Invia contenuto via mail
Link:

IL TWEET ALLE 7 - Dopo la fiducia ottenuta in Senato all’una di notte, (169 sì - 4 in meno di Letta - e 139 no), già alle 7 del mattino Renzi si è attaccato a Twitter annunciando il suo programma delle ore successive: «Ok il Senato, adesso la Camera. Poi si inizia a lavorare sul serio. Domani scuole, lavoratori, imprenditori, sindaci a Treviso. #lavoltabuona». Renzi è andato alla Camera, portandosi dietro un computer portatile, che ha tenuto accesso davanti a sè sul banco del governo: è la prima volta che un presidente del Consiglio porta un pc a Montecitorio. Lunedì aveva esibito solo il suo smartphone, chiedendo più volte ai commessi di ricaricarne la batteria.

LE COPERTURE
DAL CORRIERE DI STAMATTINA
IL CUNEO FISCALE

ROMA — «Una riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale con misure serie, irreversibili, non solo legate alla revisione della spesa, che porterà nel primo semestre 2014 risultati immediati». Eccolo il passaggio tanto atteso che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha dedicato al taglio delle tasse sul lavoro, il cosiddetto cuneo, cioè la differenza tra la busta paga netta del lavoratore e il costo per l’azienda di quello stesso lavoratore, che in Italia è fra le più alte tra i Paesi avanzati, essendo il peso delle tasse e dei contributi sociali pari al 47,6% del costo del lavoro (dati Ocse). Poche parole quelle di Renzi che hanno suscitato interrogativi fra le imprese, che dovrebbero beneficiare insieme con i lavoratori dello sconto. Innanzitutto: che vuol dire «a doppia cifra», va inteso in percentuale, ovvero minimo il 10%, o in termini assoluti, cioè almeno 10 miliardi? Giorgio Merletti, per esempio, presidente della Confartigianato, ha osservato, dati Eurostat alla mano, che essendo la tassazione complessiva sul lavoro pari a 344 miliardi di euro all’anno, tagliarla del 10% significherebbe trovare 34-35 miliardi: «Verrebbe da dire “Troppa grazia San Matteo”», ha quindi concluso. Più realisticamente Confindustria faceva osservare che l’associazione aveva chiesto inutilmente al governo Letta un taglio di almeno 10 miliardi. Non a caso ieri il presidente Giorgio Squinzi ha subito espresso soddisfazione per l’annuncio di Renzi.
In serata, da Palazzo Chigi, hanno infine chiarito che la «doppia cifra» va intesa come 10 miliardi. Del resto, ciò è coerente con quanto dicevano nei giorni scorsi gli esperti del presidente del consiglio, ragionando su una riduzione per il 2014 di almeno 7-8 miliardi così ripartita: circa 5 miliardi a favore dei lavoratori dipendenti e dei pensionati attraverso l’aumento delle detrazioni a beneficio in particolare dei redditi bassi, e il resto a vantaggio delle imprese, con il taglio del 10% dell’Irap.
Certo, ora la palla passa al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che è sicuramente favorevole al taglio del cuneo, ma che dovrà comunque presentare in consiglio dei ministri e in Parlamento provvedimenti provvisti di copertura finanziaria certa. In questo senso, ipotizzando che gli sgravi sul lavoro scattino entro il primo semestre dell’anno, bisogna trovare una copertura per il 2014 di almeno 5 miliardi, se si decide per esempio un taglio di 10 miliardi su base annua. Le risorse, verranno in buona parte dal taglio della spesa pubblica (si ipotizza di 4 miliardi già quest’anno).
In parallelo col taglio del cuneo arriverà, «entro marzo», il «Piano per il lavoro» con «normative profondamente innovative». Toccherà al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, farsi carico dell’introduzione del «contratto di inserimento». Renzi ieri non vi ha fatto cenno, forse per non riaprire la polemica sull’articolo 18, che scomparirebbe per i nuovi assunti per i primi 2-3 anni di lavoro, anche se il presidente del Consiglio ha significativamente detto: «Se non riusciamo a creare nuove assunzioni, il problema delle garanzie dei nuovi assunti neanche si pone». Poletti ha annunciato che dialogherà con imprese e sindacati. Le reazioni delle parti sociali sono per il momento generalmente favorevoli (a parte una marcata cautela della Cgil). Sul tavolo il governo metterà anche sussidio di disoccupazione universale e il rafforzamento del fondo di garanzia per l’accesso al credito delle piccole e medie imprese. Anche qui bisognerà trovare coperture certe.
Enrico Marro

LA BUROCRAZIA
ROMA — Sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione attraverso la Cassa depositi e prestiti. Massima trasparenza nella spesa della pubblica amministrazione. Dirigenza pubblica a tempo determinato. Tre impegni, questi assunti ieri dal premier Matteo Renzi, su cui altri prima di lui hanno fallito, o quasi.
Pagare il totale dei debiti della pubblica amministrazione utilizzando la Cassa depositi e prestiti. Finora lo Stato ha pagato arretrati per 22,4 miliardi sui 27 messi a disposizione e ha avviato procedure per l’utilizzo di altri 19,7 miliardi di euro nel 2014 per abbattere lo stock accumulato al 31 dicembre 2012. Secondo il Tesoro, entro quest’anno dovrebbe essere rimborsato più del 90% dello stock che viene fatto ammontare a 50 miliardi (benché Bankitalia l’avesse stimato in 90 miliardi) ma intanto anche nel 2013 si è creato ulteriore arretrato. Quello che vorrebbe fare Renzi è pagare le cifre mancanti dei 50 miliardi e gli ulteriori debiti accumulatisi l’anno scorso, tutti subito. Lo strumento dovrebbe essere quello individuato da Franco Bassanini (presidente Cassa depositi e prestiti, Cdp) e Marcello Messori del «pensatoio» Astrid: scontare presso le banche i crediti verso la pubblica amministrazione, purché riconosciuti e garantiti dallo Stato. Tale garanzia non inciderebbe sul deficit e sul debito, perché si tratterebbe di una garanzia del pagamento di debiti già contabilizzati nel deficit e nel debito pubblico. Dal lato delle banche, questi crediti, in quanto garantiti dallo Stato, peserebbero in modo limitato sui coefficienti patrimoniali. L’eventuale intervento di Cdp a sostegno delle banche sarebbe sussidiario. Il piano sarebbe stato offerto al governo Letta ma bloccato dalla burocrazia di Tesoro e Ragioneria.
E veniamo appunto alla burocrazia: «Non può esistere — ha detto Renzi —, fermi e salvi i diritti acquisiti, la possibilità di un dirigente (pubblico, ndr ) che rimane a tempo indeterminato». Il premier ha sollecitato strumenti per misurarne il raggiungimento degli obiettivi, tra cui la trasparenza, per cui «ogni centesimo speso dalla pubblica amministrazione» deve essere «visibile online da tutti».
Dunque dirigenti a tempo, da giudicare in base ai risultati. Il tema si ritrova al punto 6 del «Jobs Act» e ha l’obiettivo di combattere le incrostazioni di potere nella Pubblica amministrazione. Nel mirino potrebbero esserci i dirigenti fino alla seconda fascia che diventano tali per concorso. Ma soprattutto quelli di prima fascia e le figure apicali che invece sono di nomina politica: dai capi di gabinetto ai segretari generali, capidipartimento dei ministeri. Qui però bisognerà intendersi perché buona parte di questi sono già a tempo determinato, venendo a ogni cambio di governo assunti dall’esterno con contratto di diritto privato che prevede obiettivi cui è legata la retribuzione. Questi dunque sono già misurabili e rimovibili. Non lo sono i dirigenti che, assunti a tempo indeterminato con un contratto di servizio, assumono incarichi apicali che comunque sono a termine: da 3 a 5 anni. Questi, rimossi dall’incarico a termine, oggi restano dirigenti a disposizione per nuovo incarico. Infine l’ultima novità annunciata: ogni centesimo speso dovrà essere visibile on line . Ci provò il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, nel governo Monti a imporre la registrazione pubblica del singolo atto di acquisto. Ma la norma non è stata mai attuata.
Antonella Baccaro

IL MODELLO 740 SPEDITO A CASA

Quando è nato nel 1993 il modello 730, quello usato da dipendenti e pensionati per dichiarare i loro redditi e pagare le imposte o avere i rimborsi direttamente sullo stipendio o sulla pensione, era composto di due sole facciate. E per compilarlo bastava leggere 12 pagine di istruzioni. Il 730 da presentare nei prossimi mesi è composto da 6 facciate (compreso il prospetto di liquidazione) e le istruzione sono lievitate a 84 pagine. Bastano questi numeri per capire come in 20 anni non solo la pressione tributaria sia lievitata a livelli record (passando dal 41,7% a oltre il 45%), ma come sia, nello stesso tempo, aumentata anche l’oppressione tributaria. Vale a dire le complicazioni che il contribuente, onesto, deve superare, per fare il proprio dovere e versare ogni anno il suo obolo al Fisco. Oggi ricorrere all’assistenza di un Caf o di un professionista è, praticamente, obbligatorio. Intendiamoci: il 730 è diventato extra-large anche perché nel corso del tempo sono state introdotte molte norme a favore dei contribuenti. Ma aver moltiplicato per 7 le istruzioni è un’impresa da annoverare nel Guinness dei primati, purtroppo negativi. E non è certo una consolazione verificare che le istruzioni per il famigerato modello 740 nel 1994 occupavano solo 32 pagine. Oggi, quelle del modello Unico base, occupano 112 pagine. Sembra, insomma, caduto nel vuoto l’appello che, proprio in quegli anni l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro lanciò per la semplificazione fiscale, dopo aver definito il modello 740 «lunare» per la sua astrusità. Ben venga la promessa fatta da Matteo Renzi nel suo discorso di fiducia al Senato che prevede l’invio a domicilio di dipendenti pubblici e pensionati del modello 730 precompilato. Le intenzioni sono buone e andrebbero completate estendendo l’operazione a tutti coloro che si sono avvalsi dell’assistenza fiscale, come i dipendenti privati. E se il Fisco di Roma fa la sua parte, lo stesso dovrebbero fare i comuni che devono gestire la complessa partita di Imu, Tasi e Tari. Perché non spedire a casa dei cittadini i modelli già compilati con l’importo da versare? Visto che tagliare le tasse è difficile, almeno si taglino le complicazioni.
Massimo Fracaro
Nicola Saldutti

ABOLIZIONE DI PROVINCE E SENATO
«Vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio che chiede la fiducia a quest’aula...». L’augurio di Matteo Renzi — espresso davanti al Senato — colpisce nel segno tanto che il «veterano» Roberto Calderoli fa li scongiuri con gesto plateale. Ma per i 315 eletti a Palazzo Madama il messaggio del premier è chiaro: «Questo pezzo di storia» della Repubblica è finito. Ma la riforma costituzionale, bene che andrà, ci metterà circa un anno ad arrivare in porto mentre la legge elettorale potrebbe viaggiare più velocemente ed essere chiusa anche prima delle Europee del 25 maggio (Alfano e Ncd permettendo). A marzo partirà al Senato la riforma del bicameralismo paritario mentre alla Camera si inizierà a discutere la riforma sul titolo V della Costituzione: «Politicamente — incalza Renzi — esiste un nesso tra l’accordo sulla legge elettorale, la riforma del Senato, e quella del Titolo V». Quindi, il «pacchetto» concordato tra il presidente del Consiglio e Berlusconi prevede tre riforme concatenate e, visto che le scadenze elettorali locali sono alle porte, il premier mette sul piatto anche il ddl Delrio sulle province: «Aiutateci a cancellare le province prima del 25 maggio — ha detto il premier a FI e M5S — e vi prometto che con il Titolo V riapriamo la discussione su che cosa devono essere le province. Chiediamoci che cosa succederebbe se i cittadini si trovassero a votare a maggio per il rinnovo di 45 consigli provinciali». La carne al fuoco dunque è molta. Ma il «pacchetto» ipotizzato da Renzi già perde pezzi. Il 6 febbraio, infatti, il segretario del Pd parlò a un convegno di Confindustria di un Senato non eletto, che non vota la fiducia, che non mette le mani sulla legge di bilancio, composto da 108 sindaci dei capoluoghi, 21 governatori e 21 personalità. Bene, almeno per quel che riguarda la composizione, quel progetto è stato abbandonato anche perché qualcuno ha sussurrato al premier che il 14 febbraio la Francia ha escluso i sindaci delle grandi città dal Senato (riforma a regime dal 2017) perché non andavano mai alle sedute. Per questo a Palazzo Madama, Pd e FI si stanno convincendo che i senatori (magari solo 200) debbano essere eletti. E per compensare, i deputati potrebbero passare da 630 a 400.
D.Mart.

EDILIZIA E DOCENTI

Victor Hugo diceva che chi apre una scuola chiude una prigione. Dunque ben venga un presidente del Consiglio che nel suo discorso programmatico riafferma il ruolo centrale della scuola. E ben venga l’idea di mettere mano prima di tutto ai muri e al tetto con un piano straordinario per l’edilizia scolastica «dell’ordine di qualche miliardo di euro in deroga al patto di Stabilità interno»: il 37,6% degli istituti necessita di interventi di manutenzione urgente, il 40% è privo del certificato di agibilità, il 38,4% si trova in aree a rischio sismico, il 60% non ha il certificato di prevenzione incendi... In una situazione del genere è assurdo che quando comuni e province hanno soldi in cassa non li possano usare o che ci siano dei fondi europei che restano inutilizzati (anche se, ma è «solo»una nota di stile, Renzi avrebbe potuto riconoscere al suo predecessore di aver dato un primo importante impulso anche economico in questo senso). E ben venga anche l’idea di dedicare un giorno alla settimana della fitta agenda da premier a visitare una scuola invece che a partecipare all’ennesimo convegno. «Ogni mercoledì mattina mi recherò in una scuola. Comincerò da Treviso, la settimana successiva andrò in una scuola del Sud». Un viaggio attraverso il Paese tanto più necessario dal momento che, a 150 anni dall’Unità d’Italia, la scuola italiana semplicemente non esiste: troppe disparità fra Nord e Sud, fra centro e periferia, con i ragazzi della provincia di Trento che se la battono con i finlandesi, mentre i quindicenni calabresi vanno anche peggio di quelli del Kazakhstan! E come non applaudire quando Renzi ha affermato la necessità di «restituire valore sociale agli insegnanti»? Sono tutti malpagati, disprezzati dagli alunni e dai genitori, salvo poi rovesciare su di loro responsabilità educative che dovrebbero essere di sistema. E qui, sicuramente, ci voleva molto più coraggio. Perché per ridare dignità alla professione bisognerebbe smetterla di pensare agli insegnanti come a un monolite, uscire dall’ipocrisia di un sistema in cui tutti i professori sono uguali e i volonterosi sono pagati come i lavativi. Ma questo significherebbe passare dagli slogan ai fatti, dalla analisi dei problemi al tentativo di trovare delle soluzioni. Ed è là che tutti aspettiamo Renzi.
Orsola Riva

IUS SOLI E UNIONI CIVILI
«Punti di sintesi», dice Matteo Renzi, «compromesso». Su riforma della cittadinanza e unioni civili, il presidente del Consiglio non si sbilancia. Perché sono i temi che più allontanano le due anime della coalizione: il Partito democratico che in campagna elettorale li teneva in cima al programma, il Nuovo centrodestra che già nel governo Letta ha chiarito di non considerarli prioritari. Nel discorso al Senato, allora, i riferimenti restano vaghi. «Un Paese che non si integra non ha futuro — parole del premier —. Immaginiamo di trovare dei punti di sintesi reali che permettano a una bimba di 12 anni che frequenta la quinta elementare, nata nella stessa città in cui è nata la sua compagna di banco, di avere la possibilità dopo un ciclo scolastico di essere considerata italiana come la sua compagna». L’esempio renziano contiene un progetto di riforma che è già un compromesso. Potremmo definirlo uno «ius soli molto temperato»: italiano chi è nato in Italia e qui ha frequentato la scuola primaria. Soluzione a metà strada tra la proposta sulla quale si lavora più a sinistra (italiano chi nasce in Italia da genitori residenti da 5 anni) e l’opzione preferita dalla destra, definita «ius culturae» (italiano chi nasce e studia in Italia fino alla scuola dell’obbligo). «Lo sforzo oggi non è affermare le proprie ragioni contro altri — ribadisce il premier —, ma trovare un punto di sintesi possibile. Come sui diritti civili, su cui si deve fare lo sforzo di ascoltarsi». Non è chiarissimo, e il passaggio successivo non aiuta: «Mi ha chiamato una mia amica, che mi ha detto che se dobbiamo approvare una forma qualsiasi di unioni civili è meglio non approvare niente. Non sono d’accordo, sui diritti si fa lo sforzo di trovare un compromesso». Più che una proposta, l’ammissione della difficoltà a raggiungere un’intesa. Analizzando le posizioni in campo, se ne può immaginare una. Che non è un patto di solidarietà alla francese, ed è anche meno della civil partnership alla tedesca: una via ibrida all’italiana, che riconosce i diritti dei singoli nelle relazioni (sì alle visite in ospedale, per esempio, difficile un accordo sulle pensioni di reversibilità), ma resta lontana da un matrimonio egualitario.
Alessandra Coppola

FINE DERBY IDEOLOGICO
Secondo Matteo Renzi sarebbe ora che fosse fischiata la fine di un «derby» che dura da vent’anni. Il conflitto tra politica e giustizia, nato con Mani Pulite e proseguito con i tentativi di Berlusconi di sottrarsi ai processi (accompagnati da proposte di riforma sempre foriere di divisioni e polemiche), per il neo-premier è divenuto uno «scontro ideologico in cui nessuna parte convincerà mai l’altra della bontà delle proprie opinioni». Meglio allora girare pagina, dice, per dedicarsi a modifiche nei settori che toccano più da vicino i problemi quotidiani delle persone: diritto amministrativo («negli appalti pubblici lavorano più avvocati che muratori»), diritto civile, diritto penale. Senza rinunciare al consueto annuncio tanto apparentemente risolutivo quanto (altrettanto apparentemente) velleitario: entro giugno il ministro Orlando presenterà «un pacchetto organico di revisione della giustizia che non lasci fuori niente». Auguri. Anche perché consegnare un progetto al Parlamento serve a poco se poi il Parlamento non lo approva, come tante volte è accaduto in passato. Lasciata da parte l’emergenza-carceri su cui il capo dello Stato ha posto l’attenzione senza che le Camere abbiano ancora trovato il tempo di discuterne, il presidente del Consiglio ha proposto temi e titoli per dare efficienza a un sistema che oggi «crea inquietudine» tra gli investitori stranieri ma prima ancora «negli stessi operatori del diritto». Dire dove intervenire non è complicato, come un po’ di più. Nel settore penale Renzi ha citato l’iniquità delle pene per gli incidenti stradali mortali; sull’argomento il Guardasigilli Orlando troverà nei cassetti del ministero un disegno di legge che Annamaria Cancellieri non ha avuto modo di portare avanti. Potrà essere una buona base di partenza. Ma basterà affrontare discorsi appena un po’ più ampi, strutturali, per rischiare di ricadere nello «scontro ideologico». La riforma della prescrizione, ad esempio, ineludibile per mutamenti che non siano solo di facciata. O la sempre evocata materia delle intercettazioni, pronta a tornare d’attualità alla prossima inchiesta più rumorosa di altre. Questioni delicate e complesse, per le quali l’aria da derby è sempre in agguato.
Giovanni Bianconi

SEMESTRE EUROPEO
L’attacco al totem del 3% non c’è stato. E forse questo è il primo cambiamento sostanziale del Renzi governativo rispetto al Renzi movimentista delle primarie. Nel passaggio sulla Ue il presidente del Consiglio ha usato toni e argomenti ortodossi. E’ apparso quasi montiano (e lettiano) quando ha detto: «Lo so che siamo abituati a considerare l’Europa la madre dei nostri problemi, ma nella tradizione europeista sta la parte migliore dell’Italia, la certezza che l’Italia ha un futuro e non soltanto un passato. È il rispetto che dobbiamo ai nostri figli, alle generazioni che verranno. Non è la signora Merkel a imporcelo». In realtà lo schema del governo Renzi sembra fatto apposta per evitare la collisione con la Cancelliera tedesca, che nel settembre scorso ha vinto le elezioni promettendo ai suoi concittadini che la Germania non avrebbe allentato la presa del rigore. Due le fasi annunciate dall’ex sindaco: prima quattro mesi di riforme su burocrazia, lavoro, fisco e giustizia; poi, a partire dal primo luglio, la guida del semestre italiano con qualche proposta, ma soprattutto con un negoziato per convincere i partner europei ad allentare il rapporto tra deficit e pil (il 3%). D’altra parte recuperare a breve margini di manovra (meno tasse o più spesa) scavalcando il paletto del 3% è essenziale per mettere in pista qualsiasi piano di rilancio. Il gruppo di Renzi ne è sempre stato consapevole, al netto delle analisi fornite nelle ultime ore dal neo ministro dell’Economia, il tecnico Pier Carlo Padoan. C’è, però, un punto fondamentale, su cui ieri il presidente del Consiglio ha glissato. Chi tratterà con Bruxelles? Renzi ha cancellato il ministero degli Affari europei, rinunciando a una figura omeopatica con l’Europa come Enzo Moavero. Probabilmente il premier si prepara a gestire anche questa complessa operazione senza filtri. C’è da sperare che sia un rischio calcolato, perché nel linguaggio Ue il verbo «trattare» significa soprattutto coltivare alleanze con altri Paesi. Un lavoro che richiede tempo, energie e, soprattutto, continuità.
Giuseppe Sarcina