Luciana Castellina, L’Unità 22/2/2014, 22 febbraio 2014
CINEMA E RIVOLUZIONE
CONFESSO CHE MI FA UNA CERTAIMPRESSIONE ANDARE IN ARCHIVIO E NON TROVARE PlÙ ANSANO. La Storia dell’archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico è talmente legata ad Ansano, che non vederlo fra di noi è una cosa quasi fisica, silente il vuoto, l’assenza. Il mio contributo essenziale alla vita di Ansano Giannarelli è stato quello di ricevere la sua iscrizione alla Federazione giovanile comunista, circa un secolo fa, e debbo dire che con lui mi è andata bene. Non sempre è andata cosi, perché ho iscritto gente di cui... «non ne parliamo».
Mi è andata bene perche Ansano è stato comunista nel senso migliore del termine. Ha influito nel suo modo di intendere il cinema in rapporto al suo impegno politico e nel Pci. Mi ha fatto una certa impressione leggere la lista di coloro che erano presenti, come soci fondatori, alla costituzione dell’Archivio nel 1979, perché i nomi sono molto indicativi. Ci sono naturalmente quelli che si occupavano di cinema e questo» in qualche modo, è naturale: Zavattini, Scola, Maselli, Giannarelli, ma c’erano anche Trentin, Amendola, Ingrao, Mussi, Ledda ecc.
Riuscite a immaginare, adesso, una riunione dell’Archivio in cui intervenga la dirigenza politica della sinistra? Difficile. Mi viene da fare questo confronto perché andando a vedere il mio diario, da cui poi ho tratto un libro, ho scoperto (non ne lo ricordavo più) che le prime mostre di quadri le ho viste nelle sedi del Partito comunista, del Partito socialista, persino della Democrazia cristiana e che il dibattito, tra realismo, astrattismo ecc., si sviluppa» anche in seno ai partiti politici. Difficile figurarsi oggi i dirigenti nazionali dei partiti che in qualche sede politica si impegnino in una discussione sulle tendenze del cinema italiano.
Ansano è stato protagonista di anni in cui il rapporto tra politica è cultura, tra politica e cinema era vivo, e in fondo l’Archivio è figlio di quell’incontro. La lista di coloro che lo hanno fondato indica bene come il Pci fosse attento al cinema, anche perché tra il comunismo italiano e il cinema c’è stato un rapporto particolare, dato dal fatto curioso che importanti esponenti del gruppo dirigente del Pci, nel secondo dopoguerra, venissero dal Centro sperimentale di cinematografia (Ingrao, Licata e poi alcuni intellettuali di primo piano impegnati nella politica). A me è capitato molte volte, negli anni della polemica con il cinema americano, fatto in Europa, e all’epoca dei negoziati del Gatti di dire a Jack Valenti, che era il mio omologo (io rappresentavo l’Europa e lui Hollywood, con due pesi alquanto diversi): «badate che, da noi, il Partito comunista italiano non è nato a Mosca, ma è nato a Hollywood». Una battuta, naturalmente, che però coglieva un elemento di verità: basterebbero in proposito i racconti di Ingrao, che aveva frequentato il Centro sperimentale. Era innamorato perdutamente di Alida Valli, come è noto, e lo ha confessato svariate volte. Lui diceva: «noi siamo diventati antifascisti attraverso il cinema americano» e aggiungeva che l’antifascismo dell’Italietta pre-fascista non entusiasmava, perché coltivato in seno a una cultura elitaria, ermetica, chiusa. «Finalmente – diceva Ingrao –scoprivamo che poteva esserci una cultura popolare che non era fascista, incarnata ad esempio dai film americani del New Deal».
La cultura cinematografica è stata un ingrediente importante del periodo del secondo dopoguerra. Ansano, che era più giovane di quella generazione, è stato però tra coloro che hanno cercato di dare un senso a questo particolare rapporto con la politica e con la società. L’idea era che il cinema fosse uno sguardo penetrante sulla realtà, un mezzo per conoscerla e indagarla; e questo non si riferiva solo al documentario o all’inchiesta filmica, ma alla fiction e al documentario insieme, nella misura in cui la fiction era capace di suscitare passioni, di ispirarsi a dei valori, di dare senso alle cose e di essere in grado di comunicare. Era importante l’uso conoscitivo del cinema e il suo carattere universale. Ricordo queste cose perché sono sempre più nostalgica, anzi ormai «vetero», non solo per ragioni anagrafiche, ma anche perché mi piacevano di più i tempi passati che quelli attuali, lo confesso, e quando sento parlare di «rottamatori» mi viene l’orticaria. Galvano Della Volpe – pure i filosofi si occupavano di cinema – diceva che il cinema era come la filosofia, perché aveva la stessa pulsione conoscitiva e di espressione, in quanto strumento di conoscenza dell’universalità. Voglio ricordare anche una frase di Barbaro (se la sentissero, ci picchierebbero tutti i rottamatori e non solo loro, anche i più giovani e i più innocenti), il quale inveì contro il cinema come divertimento: «dovremmo fare cinema per avere la magra soddisfazione di divertire degli sfaccendati imbecilli?!». Forse è una posizione «eccessiva», ma la frase coglieva quello che, in quegli anni, era un sentimento diffuso. Toti Scialoja diceva, subito dopo la fine della guerra, «siamo stati afferrati dalla storia» e l’idea che noi non facessimo parte di chi la storia la faceva, era un’idea impensabile. In fondo, diciamo che l’Archivio nasce da questa idea. Nasce tardi, nel 1979, dopo molti anni, ma c’era ancora Fonda lunga di quel tipo di pensiero e quel tipo di impegno. Ansano aveva dato un particolare significato al fatto che questo archivio si chiamasse Archivio del movimento operaio, perché esplicitava una scelta di campo, per dare volto, diceva, alle classi subalterne, per dar loro la possibilità di prendere la parola. Inoltre, ciò che mi ha colpito di più, nel corso di tanti anni, è la battaglia fatta da Ansano per sotterrare la distinzione tra il documentario e la fiction, per lottare contro l’idea che il documentario, così come i corti, fossero i parenti poveri del cinema di finzione, per esaltare l’unicità del linguaggio cinematografico nelle sue espressioni. Ansano distingueva, giustamente, il cinema dalla televisione, perché questa tende a consumare tutto nell’immediatezza e nella standardizzazione, mentre sia la finzione che il documentario hanno bisogno di soggettività nel raccontare e del tempo della riflessione e della reinterpretazione. Questo è quello che rende il cinema documentario e la fiction molto simili e, invece, li differenzia, certamente, dalla televisione.
Mi dispiace per tante ragioni che Ansano non sia più qui, ma in particolare perché si sta riaprendo una stagione del documentario, ce lo dicono i festival recenti, i lavori di qualità che finalmente riescono a raggiungere un pubblico. Questo accade, credo, perché c’è una tale drammaticità della storia presente, come nel dopoguerra, che è difficile sottrarsi, limitarsi a fare film di intrattenimento (certo se ne fanno tanti Io stesso). Insomma, c’è un elemento molto politico, che ha portato a tutto questo. Spero che l’Archivio riesca a raccogliere qualcosa da questa nuova stagione, avendo lottato perché arrivasse. Non solo per conservare la memoria, ma perché la memoria fosse continuamente alimentata e perché il documentario, come Ansano ha sempre sostenuto, fosse riconosciuto come un grande contributo a tutto il cinema e alla sua capacità di indagare e raccontare la realtà.