Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 25/2/2014, 25 febbraio 2014
IO COME TOTÒ: RIDO, PROVOCO E NON HO PAURA DI NIENTE
Bruciando il sigaro nel tramonto di una strada romana che lo ospita dal ’73: “L’avevo suggerito sia a Rutelli che a Veltroni ‘perché non la chiamiamo via Giulia Bonito Oliva?’ È troppo presto, mi dicevano”, ABO ride dei suoi decenni senza età. Insegnante universitario, critico d’arte, organizzatore di mostre, inventore di aforismi: “Come Dudù, tutti alla ricerca di un collare”, Biennali, transavanguardie, linguaggi, scandali, ora anche conduttore di Fuori Quadro (Rai 3, domenica alle 13:25), 12 puntate d’arte varia sulla vita, le opere e i giorni: “La tv è un contenitore, è come il frigorifero, dipende da quello che ci metti dentro. Io mi diverto da sempre, mia madre mi chiese cosa volessi fare da grande e senza esitare risposi, il bambino”.
Ci è riuscito?
Ci provo e mi misuro con la mia immaturità, la mia impazienza e il mio disprezzo per quel che vedo in giro. Il narcisismo è sempre stato il motore ecologico del mio vagare. Ho una dimensione infantile che non ho mai nascosto e da cui non mi sono mai difeso. Ho giocato a carte scoperte. Sono quello che sono grazie alla deresponsabilizzazione. All’umorismo. A Totò. Il mio antidoto.
A Totò?
Sono un totoista convinto. Come sostiene Goethe l’ironia non è altro che la passione che si libera nel distacco. Sa cosa faccio ogni tanto per strada?
Cosa fa?
Interrogo le persone a bruciapelo, gli sconosciuti: “7 per 8?”. Qualcuno ride, altri rispondono, altri ancora si incazzano. Penso che con il riso si possa sedare qualsiasi violenza, ma in una città in cui basta uno sguardo di troppo a un semaforo per beccarsi una coltellata, qualcosa si rischia.
Coraggioso.
Il coraggio è sempre frutto di un’enfasi. Di un’esasperazione. Non aver paura è una condizione di fondo. Anche se sono il primo di nove figli e ho avuto successo fin da piccolo, sono diventato intellettuale per disperazione.
Racconti.
Famiglia molto benestante. Mia madre, la mia parte morale, discende da Celestino
V. Mio padre, proprietario di terreni e convinto libertino, era invece il manifesto dell’aristocrazia di campagna. Nelle lunghe estati passate nel palazzo di famiglia leggevo un libro al giorno.
Le sono serviti?
Sono un ossimoro. Vivo di equilibri squilibrati, di nichilismi attivi, spinte che hanno prodotto un’economia creativa e culturale senza che in origine ci fosse un progetto. Ho cominciato come poeta. Poi senza mai lasciare la scrittura sono passato all’arte. Mi pareva più socievole e stimolante, permetteva un rapporto interpersonale.
Ha bisogno di un pubblico?
Da sempre. Con il pubblico, non diversamente da quando mi innamoro assecondando una natura erotica, divento anche più intelligente. Riesco a pensare cose che da solo non penserei.
Megalomania?
Il contrario. Umiltà. Mai avuta un’idea monumentale di me stesso. Lo specchio e il doppio sono per me esigenze imprescindibili. Ma non c’è alterigia e non ho nulla da insegnare. Come dico sempre, sono un basso napoletano.
Però vive a Roma.
Anche se il generone romano è patetico e la frequentazione costante dello stesso ambiente è stagnante, la città è il teatro visivo da cui mi piace essere circondato. Roma misura tutto con una cinica, imperitura aura che innalza il relativo ad assoluto.
Il suo primo volo in solitaria, Montepulciano 1968.
Una mostra intitolata “Amore mio” negli anni dell’esaltazione dell’io collettivo.
Una delle sue provocazioni?
Ho svolto un’attività sventolando un protagonismo leggero. Le mostre, la Biennale, le arti, il cinema altro non sono che un’implicita proiezione per arrivare agli altri. Lo facevo anche da ragazzo quando in una Stromboli selvaggia arrivavo con 20 mila lire e ripartivo con 80. Ero sempre ospite, non mi si consentiva di spendere, ero una presenza lieta che sfacciatamente sapeva rendersi indispensabile. Il rapporto con la natura era elementare. A Stromboli non potevi ammalarti, non c’erano farmacie né ospedali, si andava in giro scalzi, lo stato di salute era l’unica risposta che potevi dare alla selezione naturale dell’isola.
Si spogliava a Stromboli. Si spogliò nudo per la
copertina di Frigidaire .
Diedi corpo al critico rispetto a una posizione laterale di servo di scena. In Italia la cultura ha quasi sempre rappresentato un mezzo per la scalata sociale. L’ipotesi mi nauseava. All’epoca alcuni professori della Sapienza si spesero nella delazione. Portarono le foto ai più alti in grado chiedendo il mio allontanamento. Mi trovai di fronte al Rettore Tecce e citai Duchamp. Anche lui si era fotografato mentre giocava a scacchi con una donna nuda. L’artista che gioca con la natura come io sono messo a nudo dalla natura dell’arte stessa, spiegai. Capì.
Si è spogliato anche Sgarbi.
Con le mani sulle palle e mi chiedo: “forse per coprire quello che non ha?” La differenza tra e me lui è che io sono narcisista e lui è vanitoso. La vanità ha bisogno dell’applauso immediato, è il prêt-à-porter del narcisismo.
Politica. Le piace Renzi?
Anche se il vecchio Pci non ha mai sopportato nulla a sinistra di sé, Renzi è un’altra storia. Sarà il primo premier postmoderno. Qui l’azione viene prima del pensiero. Ha un lato da performer che produce un paradosso: seda le ansie di inutilità della classe politica, sviluppa un speranza palingenetica per destra e sinistra. Si sentono tutti salvati da Renzi, da Arcore a Sanremo.