Gabriele Romagnoli, La Repubblica 25/2/2014, 25 febbraio 2014
QUELL’ODIO PER LOTITO IL PRESIDENTE COLPEVOLE DI NON FAR SOGNARE MAI
Poi è tornato a casa vincitore, ha aperto la porta, riabbracciato suo figlio, gli ha fatto vedere le immagini dello stadio e trionfante gli ha detto: “Guarda, un giorno tutto questo sarà tuo!”. Per un attimo negli occhi del giovane Lotito si è dipinto il terrore, quello puro, che non dà scampo: una vita segnata dal disprezzo, quarantamila persone che si radunano soltanto per dire che non ti vogliono e offenderti in tutti i modi possibili, quello ironico il più ferale (“Lotito, sei come Cimabue, fai una cosa e ne sbagli due”).
A ciascuno il suo: nella capitale ucraina sono scesi in piazza per cacciare un presidente tiranno collezionista di bestie, in quella italiana per uno tirchio collezionista di gaffes. I resoconti dell’indomani sono cronache dell’assurdo. Sul quotidiano “Il Tempo” un tifoso racconta di aver ceduto all’impazienza ed essere andato sugli spalti all’una benché si giocasse in notturna. Lo corrodeva una smania da grande vigilia. Come se la Lazio dovesse giocarsi la Champions? “Di più!”, ha risposto. L’importante non è vincere, ma partecipare al casino. Infatti è finita 3 a 2 ma la furia non si è placata. Il campo era una distrazione, né volo d’aquila né gol di Klose che tenessero: sguardo alla tribuna e cori contro Lotito.
C’è qualcosa di psicopatologico nel tifo e si nota. L’idea che uno sostenga una squadra per gioirne è una fantasia. Andare allo stadio è come andare al casinò: nell’arco di una vita esci per lo più perdente. Vale perfino per uno juventino, figurarsi un laziale. Ma il punto è che esattamente quello si cerca. Lo dimostra un libro intitolato “Ultimo stadio”. Sottotitolo: diario di due malati di calcio. Uno romanista e uno laziale. Quest’ultimo (Sergio Colabona) dedica pagine elaborate al dolore ancora vivo seguito a una beffa subita da Garlaschelli. Poi arriva lo scudetto, quello pazzesco, con la folla all’Olimpico che guarda al maxischermo la Juve affondare a Perugia e conclude in tre righe: non era quella gran cosa che mi aspettavo. Niente, poi, in confronto alla marcia dei quarantamila contro Lotito.
Il potere e la gente: storia di una relazione senza speranza. A un certo punto, possono passare decenni o pochi mesi, puoi chiamarti Gheddafi o Letta, si decide che non vai bene, che qualcun altro, non importa chi, sarà migliore di te e lo si invoca, abbia un volto o sia il fantasma dei natali futuri. Ma per Lotito è accaduto il giorno stesso in cui si è presentato. Con quella bocca può dire ciò che vuole (e lo fa), ma nessuno se ne innamora. Fisiognomicamente prima ancora che finanziariamente appare inadatto per l’incarico. Ha accumulato molte colpe, la prima e non emendabile: essere se stesso. E’ riuscito nell’ovvio e nell’impossibile.
Ha fatto scattare la trappola della nostalgia canaglia: aridatece Cragnotti, quello che faceva annunciare allo speaker colpi di mercato mai realizzati. Oppure datece chiunque altro: ci sarà ben un malese che vuol comprare la Lazio. Sennò, va bene anche Squinzi, lungimirante ras di Confindustria e del Sassuolo: uno che al bivio tra cambiare l’allenatore o la squadra, ha scelto entrambi e perde da 4 giornate di fila. Lotito ha riabilitato, al confronto, chiunque. “I politici devono ascoltarci”, ha chiesto la curva. Composta da gente che non vota, irride il parlamento, maledice la casta. Ammenochè: la liberi da Lotito. E come? Ma soprattutto: perché?
Ho provato a capire il fondamento di questa incompatibilità. Ne ho parlato con laziali a mente fredda, al netto di ogni complottismo. Esiste in loro un lato razionale che attribuisce a quest’uomo colpe e meriti in misura quasi uguale. E’ stato avaro. Ma ha vinto più di quanto gli investimenti avrebbero fatto immaginare. Ha maltrattato i giocatori che volevano andare via. Ma ha ceduto chi (incluso Hernanes) non era più motivato. Ci ha guadagnato. Ma lo ha fatto perché ha saputo pescare e valorizzare. Ha comportamenti da ducetto dentro e fuori la società. Ma ha divorziato dagli ultrà e immesso giocatori di colore. Ha battuto la Roma nel Super Derby. Ma ora le naviga così lontano da non vederla più, di qui a un lustro. Fin qui sarebbe pareggio. Perché allora uno stadio e mezza Roma contro? Perché ha perso tutti? Perché nel tifoso prevale il lato irrazionale, quello della passione. Ama la squadra, la maglia, la bandiera. Ama il giocatore che suda e sbaglia più di quello che con un tocchetto segna. Vuole un leader che faccia proclami che evochi il coraggio e i sogni: un milione di posti in tribuna, una coppa al mese. Che si sprechi, compri un peruviano zoppo ma promettentissimo. Che sia come il suo popolo: cieco, eppur capace di vedere un domani migliore. Lotito non è niente di tutto questo. Imperdonabilmente non ha un progetto, un’utopia, un piano triennale. E alla fine, questo vien da pensare, non è manco laziale.