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 2014  febbraio 25 Martedì calendario

MEMORIE DADAISTE


Per i suoi novant’anni una cena placée con 80 invitati. Chef d’eccezione Daniel Spoerri, artista Fluxus famoso per i suoi tableaux pièges (collages a parete con avanzi di cibi e libagioni bloccati dal vinavil), nature morte dell’occhio.
Location: La Fondazione Mudima. Così Milano ha festeggiato Arturo Schwarz poeta, scrittore, critico d’arte, editore e gallerista che ha attraversato molteplici culture, dalle scienze naturali all’alchimia, avventure di ogni genere, arresti, persecuzioni, celebrazioni, il privilegio di amicizie personali con i più grandi artisti del dadaismo e del surrealismo.
Cominciamo da Alessandria d’Egitto, la tua città natale. Ti considero un intellettuale alessandrino, per le attitudini che questa definizione comporta: l’idea di interessi molteplici, cosmopoliti, che rifuggono ogni geografia stanziale.
«Ho fatto studi universitari di scienze naturali a Oxford, poi non mi è bastato e ho preso una seconda laurea in filosofia con una tesi sul materialismo dialettico e la psicoanalisi. Allora c’era un solo libro sul tema, di Reich, pubblicato nel ’33, proprio lo stesso anno di quando scrissi questa tesi, un argomento quasi vergine con un mio punto di vista che divergeva notevolmente da quello di Reich. Questi orientamenti, il piacere e l’interesse per le scienze naturali, per la psicoana-lisi, la psichiatria e la filosofia, sono sempre rimasti nel mio modo di leggere e di scrivere».
Hai vissuto in Egitto i primi 25 anni di vita.
«Sì, e, in quanto fondatore della sezione della Quarta Internazionale, sono stato arrestato nel 1937 e sbattuto nella prigione di Hadra, uno dei luoghi più terribili della terra. Dovevo essere impiccato il 15 maggio del 1948. Ad Alessandria d’Egitto, c’era un clima vivace con i fermenti portati dalla colonia francese e inglese».
A cosa senti di appartenere?
«All’umanità. È sempre stato così, anche politicamente ero parte di un movimento internazionale perché il trotskismo è un movimento internazionale».
E la radice ebraica?
«Per me il più grande filosofo sarà sempre Baruch Spinoza. Perché il suo pensiero esclude la possibilità di un essere superiore a noi. Siamo noi la divinità. Per me la divinità è la donna. Sono sempre stato ateo: a dodici, tredici anni, già non osservavo più il Kippur ».
Quando hai iniziato a scrivere le prime lettere a Breton?
«Avrò 20 anni, sono nato nel 1924, quindi fu nel ’43 o ’44. Breton allora abitava a New York, gli mandai le mie poesie e gli scrissi che condividevo totalmente le sue idee. Il surrealismo è stato innanzitutto un progetto politico: i surrealisti sono stati trotskisti per anni. Breton mi rispose dopo sei mesi perché la mia lettera per arrivare a New York ce ne aveva messi tre. Lo fece con una lettera indimenticabile, che cominciava così: Mon cher jeune amis, mio giovane caro amico. Fui pazzo di gioia e di lì poi è cominciata la nostra corrispondenza».
Perché decidesti di venire in Italia?
«Fui espulso dall’Egitto e poiché la mia famiglia era di Milano non potevo andare in nessun altra città. A Milano, trovai una ditta di import-export che cercava un corrispondente francese-inglese. Poi, grazie a uno zio che era vice direttore della Banca Commerciale Italiana, ebbi un fido con il quale ho potuto aprire una piccola libreria in via della Spiga all’angolo con Sant’Andrea, al 23. Avevo anche una casa editrice con cui ho tradotto in italiano sia le opere di Breton che quelle di Trotskij».
E poi perché smettesti di fare l’editore?
«Perché pubblicai La rivoluzione tradita di Trotskij con una fascetta che diceva “Stalin passerà alla storia come il boia della classe operaia”. Ci fu quindi un certo Palmiro Togliatti, che andò alla Banca Commerciale Italiana e disse: “O togliete il fido a quella iena trotsko-fascista di Schwarz o noi trasferiamo tutte le nostre attività”.
Così, da un giorno all’altro, mi tolsero il fido e dovetti svendere tutti i materiali della casa editrice».
La tua era una libreria generalista?
«No, era specializzata in letteratura, poesia e saggistica. Dopo un anno e mezzo, non riuscivo a sopravvivere solo con la libreria e mi sono messo a organizzare mostre di stampe e disegni dei miei amici surrealisti».
C’erano anche i libri di Marinetti e Ungaretti?
«Ungaretti sì, Marinetti no».
Perché escludevi il futurismo? Per l’abbraccio mortale con il fascismo?
«Sì, non l’ho mai perdonato per ragioni ideologiche. La prima mostra fu dedicata a Picasso e Sironi e poi vennero surrealisti come Yves Laloy, Victor Brauner, Max Ernst. Ripresi ad andare a Parigi da dove tornavo con le valigie piene di stampe. Allora non avevo i soldi per le opere, quindi compravo solo stampe e prime edizioni. La prima vera mostra di pittura l’ho fatta quando mi sono trasferito da via della Spiga a via del Gesù, con una personale del dadaista Marcel Jancu».
Come hai conosciuto Duchamp?
«Nel 1955 sono andato a trovarlo quando abitava a New York. Per poter viaggiare mi avevano chiesto di fare dei vaccini e durante la notte ebbi incubi terribili. Sognai che ero in casa di Duchamp e lui cercava un plico di lettere che si trovavano in fondo a un cassetto. Allora da Milano scrissi subito a Duchamp e gli dissi del sogno, descrivendogli il mobile che avevo visto, dove nel terzo e ultimo cassetto in fondo si trovava quel plico di lettere che lui stava cercando. Mi mandò un telegramma con una sola parola…».
Trouvé!
«Ma come fai a saperlo?».
Ma è chiaro, è come l’Objet Trouvé. Mi descrivi il primo incontro?
«Abitava tra la Quarta Strada e la Sesta Avenue, dove c’era il Buster Chester, il club degli scacchi. Era un uomo di un’affabilità e di una semplicità incredibile. Ti trattava come un suo pari, mettendoti subito a tuo agio».
E quando nasce poi la tua proposta di ricostituzione dei readymade?
«Nel 1964, perché la maggior parte dei ready-made erano scomparsi, l’orinatoio non c’era più, la ruota di bicicletta non c’era più, il badile per la neve non c’era più. Erano rimasti solo dei quasi ready-made come Apolinère Enameled, che era al museo di Philadelphia e Fresh Widow, uno dei due era al Moma. Io tra l’altro non ho fabbricato niente, ho trovato tutti gli oggetti già fatti, il porte bouteilles era un oggetto reale, ho scelto quello che era più vicino alla foto dell’originale che era pubblicata nella
Boîte Valise».
E la Fontana firmata “R. Mutt”?
«È pubblicata anche quella nella foto. Quella l’ho fatta fare da una fabbrica di orinatoi che per i 13 esemplari realizzati mi hanno fatto pagare come per circa 500 esemplari perché avevano dovuto fare una forma speciale. Di ognuno facemmo otto copie, numerate da 1 a 8, più due: una dedicata a Marcel e l’altra a me, più due fuori commercio».
Che adesso sono alla Galleria Nazionale di Roma e nei musei in Israele.
«Le mie due serie complete le ho regalate, una a Roma alla Gnam e l’altra al museo di Gerusalemme. Oggi ho donato tutto quello che avevo, distribuito tra cinque musei. Sono anarchico, non soltanto nella parola, ma nell’ideologia. Anarchia non vuol dire disordine, ma indica un ordine superiore. Ritengo, come Proudhon, che la proprietà è un furto e allora, quando avevo su per giù settant’anni, ho deciso di donare tutto quello che avevo».
Perché nel 1974 smetti di fare il gallerista?
«Perché avevo realizzato quello che volevo: da una parte riscoprire e fare riscoprire i grandi dadaisti e surrealisti, dall’altra quelli che sarebbero diventati grandi artisti e che non avevano ancora mai esposto, come Arman, Raysse, Spoerri e tanti altri».
È curioso che tu, trotskista surrealista, abbracci gli artisti dadaisti, che diventano i tuoi compagni di strada.
«Perché il dadaismo è stato un movimento eversivo che partiva dalla tabula rasa e questo lo condivido in pieno».
L’arte serve o sparecchia?
«Serve immensamente. Non si può vivere senza arte e senza poesia. È una ragione di vita, un modo di vivere».
Questo vale davvero per la sua vita. Venerdì Arturo Schwarz si sposa.