Francesco Guerrera, La Stampa 25/2/2014, 25 febbraio 2014
NESSUNO HA INVENTATO L’ELISIR DI LUNGA VITA PER LE NOSTRE ECONOMIE
Dalla terrazza di «M on the Bund», la crescita economica si può quasi toccare. Lo splendido ristorante si affaccia sull’arteria principale di Shanghai, circondato da palazzi storici. Oggigiorno, però, l’architettura degli Anni 30 e 40 è eclissata dallo spettacolo sull’altra sponda del fiume Huangpu. La star dello show è il quartiere di Pudong, una giungla di grattacieli scintillanti che si ergono al di sopra dello smog della megalopoli cinese. Guardando quei palazzoni, i templi di vetro e acciaio per i nuovi mandarini del denaro, è impossibile non essere sbalorditi dalla rivoluzione industriale, sociale e economica che ha trasportato la Cina dal Medioevo del comunismo al presente di un capitalismo ricco, grasso e a volte sfrenato.
Fu proprio su quella terrazza, un po’ di anni fa, che chiesi a un amico banchiere: «Ma secondo te, questa crescita cinese è vera? Durerà»? Domanda stupida, forse causata dal memorabile Bordeaux che stavamo sorseggiando.
«Durerà?», mi disse con un sorriso di compassione. «E che importa? Per ora è qui. Godiamocela», e ci versò un altro bicchiere.
L’epicureo pragmatismo del mio amico è la risposta giusta, forse la sola risposta, alla domanda che economisti, politici e banchieri centrali si pongono da generazioni: «Come stimolare la crescita economica?». Il quesito è il cuore pulsante dell’eccellente saggio di Luca Ricolfi che ha il merito di offrire una spiegazione nuova a un problema antico. Ma spiegare il problema non significa risolverlo.
La mia esperienza di (per citare Gianni Clerici), «guardone» dell’economia mondiale in Europa, Asia e America, non è incoraggiante. Ho avuto la fortuna di essere testimone in momenti storici nell’economia mondiale degli ultimi 20 anni: dall’Inghilterra del dopo-Thatcher alla Bruxelles della creazione dell’euro, dall’esplosione della Cina alla Grande Recessione negli Stati Uniti.
La mia conclusione è che la crescita è come il barbiere di Siviglia: tutti la vogliono, tutti la cercano. Ma, a differenza del personaggio di Rossini, in pochi la trovano e pochissimi riescono a mantenerla per lunghi periodi. La realtà è che il modello di crescita di un paese è difficilmente replicabile in altre circostanze.
Il miracolo economico della nostra generazione è senza dubbio la Cina, ma non c’è paese occidentale che possa utilizzare le lezioni di Pechino per stimolare la propria economia. La salita strepitosa del prodotto interno lordo cinese negli ultimi decenni è dovuta quasi esclusivamente a tre fattori: le spese enormi del governo su infrastrutture e energia; i prestiti a prezzi stracciati fatti da banche di Stato a imprenditori per opere grandiose quali i grattacieli di Pudong; e all’influsso di capitali stranieri bramosi di comprarsi un pezzetto del miracolo-Cina. Nessuna di queste condizioni è applicabile in Italia, Francia o Stati Uniti. L’equazione-crescita espressa in caratteri cinesi è incomprensibile per il resto del mondo.
Lo stesso si può dire della «Grande Moderazione», il lungo periodo di crescita dell’economia americana che ha preceduto la crisi finanziaria del 2007-2008. Mi sono trasferito a New York verso la fine di quell’epoca e ricordo bene il compiacimento stomachevole di capitani d’industria, banchieri e investitori. Da Alan Greenspan, il capo della Federal Reserve, in giù, parlavano tutti di un «new normal», una nuova normalità in cui i violenti cicli di crescita e recessione erano stati debellati dalle lungimiranti politiche monetarie della Fed. Parlavano del «miracolo della produttività», che aveva fatto sì che milioni di americani lavorassero più ore senza chiedere salari più alti. E parlavano dell’equilibrio perfetto tra domanda e offerta creato dalla globalizzazione, con aziende che producevano beni a poco prezzo e consumatori pronti a comprarli in grande quantità.
Nel giro di pochi anni, scoprimmo che l’imperatore non aveva vestiti. La nuova normalità era fondata sul debito eccessivo di consumatori con troppe carte di credito e mutui che non potevano pagare ricevuti da banche irresponsabili e amanti del rischio. Su tassi d’interesse così bassi da aver gonfiato una bolla immobiliare senza precedenti. E su un «miracolo» di produttività che aveva creato milioni di «McJobs», lavori effimeri che pagavano poco e non abbastanza per la sanità o la pensione.
La «Grande Moderazione» si rivelò una grande illusione e gli Usa sprofondarono nella peggiore recessione del dopoguerra. L’Europa li seguì subito dopo, afflitta da problemi simili. Anzi, l’Unione Europea ci aggiunse del suo, grazie a una moneta comune che doveva essere una panacea e si è rivelata una camicia di forza. E il Giappone, l’altro grande polo economico del pianeta, è rimasto pressoché inerte, con un trend economico simile all’elettrocardiogramma di un morto.
Parafrasando Giulio Andreotti, la crescita logora chi non ce l’ha e negli ultimi anni non l’ha avuta quasi nessuno. Ma la lezione più importante degli eventi epocali dell’ultimo decennio è che gli stimoli economici non si creano in laboratorio o con le equazioni. In una democrazia (e qui la Cina è diversa…), per far crescere l’economia bisogna uscire dal laboratorio, rimboccarsi le maniche e cercare di capire le motivazioni e gli incentivi degli agenti principali: consumatori, aziende e investitori. Per ora, purtroppo, banchieri centrali, accademici e mercati non hanno ancora trovato l’elisir di lunga vita economica.
Come disse il mio amico sul Bund, chi la crescita ce l’ha se la goda, tutti gli altri dovranno continuare a cercarla.