Filippo Facci, Libero 25/2/2014, 25 febbraio 2014
DA QUALE LINGUA
Quando Travaglio non sa che cosa scrivere - capita, in questa professione - prende in giro i colleghi proni a ogni messia (per esempio a Monti) o che incensano l’ultimo arrivato con prose imbarazzanti (per esempio Renzi). Spesso è un esercizio un po’ forzato: basta non scrivere che tizio è il capo della mafia e secondo Travaglio sei un leccapiedi. Ma fa niente, la ricognizione dello slurpismo è un genere giornalistico come un altro. Solo che mi chiedo, ogni tanto: ma lui, Travaglio, da quale pulpito pensa di scrivere? Glielo ricordo senza acrimonia: lui è quello che il proprio trasporto professionale (va bene scritto così?) l’ha dedicato a statisti del calibro di Di Pietro, Ingroia e Grillo. Lui è quello che se parli con Cicchitto e con Bersani sei un servo, se invece parli con Di Matteo e Zagrebelsky sei un sacerdote della verità. Lui è quello che puoi cenare con i magistrati ma non con i politici, anche se entrambe le categorie rappresentano un potere e una parte: ma Travaglio pare prediligere la parte assente dal Parlamento e che gli passa atti, verbali e confidenze. Non c’è da impiccare Travaglio per questo: fa la sua parte. Solo che mi chiedo se sappia che la sua fama, tra i colleghi, è semplicemente quella che è: quella di un collega che la sfanga brillantemente e che occupa uno spazio. E che a Beppe Grillo, nel giugno 2012, sul Fatto Quotidiano, fece un’intervista che Marzullo in confronto sembrava Torquemada.