Luca Ricci, Il Messaggero 25/2/2014, 25 febbraio 2014
DA MALEDETTO A SANTO
L’ANNIVERSARIO
Sono passati vent’anni dalla morte di Charles Bukowski e l’etichetta di ubriacone guastafeste, che in vita gli fu da ostacolo per essere preso sul serio come scrittore, ha già lasciato il passo alla santificazione. Lo scandalo è stato digerito e adesso suscita perfino rispetto, e lo scrittore maledetto per eccellenza viene quasi scambiato per un sapiente pedagogo. In onore della ricorrenza sarà in libreria tra pochi giorni Il sole bacia i belli. Interviste, incontri, insulti (Feltrinelli, pagg. 272, euro 18, trad. di Simona Vinciani), un compendio messo insieme da David Stephen Calonne (biografo specializzato in scrittori). Ma chi è stato davvero Bukowski? A Los Angeles Dio è morto già da un pezzo, quando nel 1969 arriva alla notorietà pubblicando il suo primo romanzo autobiografico: Post Office. Il movimento Beat si è trasformato in qualcos’altro - nichilismo radical chic? - e tutto il fermento della città sembra svolgersi nel chiuso dei garage dove quattro o cinque giovanissimi nerd stanno organizzando una rivoluzione allora incomprensibile, quella dei computer e della Silicon Valley. D’altronde Los Angeles non ha mai avuto lo slancio hippie di San Francisco, e le sofisticate utopie della Colombia University si trovano esattamente dall’altra parte dell’America, bagnate da un oceano differente. Come se non bastasse, appena eletto alla Casa Bianca Nixon dichiara: «Non sarò il primo presidente degli Stati Uniti che perde una guerra». Il fronte del conflitto in Vietnam si estende e i bombardamenti aerei vengono effettuati di nascosto, senza il coinvolgimento dell’opinione pubblica.
LE ORIGINI
All’epoca Bukowski non fa nient’altro che bere - scotch da quattro soldi, o birre in confezione da sei - quindi nessuno può intonarsi all’amarezza di quel momento storico meglio di lui. La sua famiglia di origine polacco-tedesca l’ha trascinato in California all’età di dieci anni, e poco dopo una violenta forma di acne giovanile gli ha deturpato la faccia in modo permanente. Il ruolo che la società gli affibbia, da immigrato figlio di nessuno e adolescente sgraziato, è fin troppo chiaro: quello dell’emarginato.
La prima illuminazione letteraria la ottiene grazie a John Fante - un altro emarginato, stavolta italo-americano -, di cui legge e rilegge i romanzi presi in prestito dalla biblioteca pubblica. In un libro intervista rivela a Fernando Pivano: «Nessuno pensa a John Fante. È quello che forse ha esercitato la maggior influenza su di me... Fante ha quel modo di scrivere facile, permette a un mucchio di emozioni di entrare in quel modo di scrivere». Quindi non è forse un caso se anche Bukowski, in seguito, ha adottato un alter ego letterario: così come Fante era diventato Arturo Gabriel Bandini, lui si trasforma in Henry Hank Chinaski. Tra l’altro personaggi molto simili - entrambi poveri, impegnati in lavori umilianti, in attesa della consacrazione letteraria - simili a tal punto che certa critica ha voluto vederli come la stessa persona in epoche differenti. Chinaski altro non sarebbe che un Bandini invecchiato, più amareggiato e disilluso nella lotta per la sopravvivenza. Ma Bukowski ancora tutto questo non lo sa, e neanche lo immagina. Per dieci lunghissimi anni continua a lavorare come impiegato archivista alle poste, concedendosi un’unica trasgressione serale: dopo il lavoro, oltre a sbronzarsi, gli piace ascoltare alla radio Gustav Mahler, mentre tenta di capire come si diventa un poeta o uno scrittore. Qual è quella molla speciale in grado di convertire il senso di fallimento in letteratura?
Il successo è abbastanza travolgente - la City Lights di Ferlinghetti finalmente si accorge di lui, poi arrivano le pagine del giornale underground Open City e il contratto editoriale con la Black Sparrow - ma tutto sommato Bukowski non cambia il suo stile di vita. Continua a frequentare ippodromi (negli ultimi anni, quando la fama diventa quasi ingombrante, si fa accompagnare da Sean Penn), e a innervosirsi con le donne (epocali i litigi con Linda Lee Beighle, la quale per farsi riprendere in casa è costretta a estenuanti scioperi della fame).
I CAPOLAVORI
Le sue letture poetiche diventano dei piccoli eventi scanditi da colpi di scena scurrili. Da lui i fan si aspettano sempre che in un modo o nell’altro mandi tutto in vacca, impalli lo spettacolo, rovini la festa: raramente restano delusi. Uno dopo l’altro, con una naturalezza che appartiene solo ai grandissimi, Bukowski scrive i suoi capolavori, Storie di ordinaria Follia, Compagno di sbronze, Pulp. Negli studi del famoso talk show letterario Apostrophes viene rimproverato dal conduttore Bernard Pivot per essersi presentato ubriaco. Nella sua villa a San Pedro con piscina, ancora detestato da molti ma ormai icona pop, va a trovarlo perfino Madonna. La ragione? Con chiaroveggenza, anni prima che la Lehman Brothers crollasse come un castello di carte, aveva capito e ci ha raccontato che in America, forse, non c’è mai stato da inseguire nessun sogno.