Alessandro Ferrucci, Il Fatto Quotidiano 24/2/2014, 24 febbraio 2014
CIRCOLETTO ROSSO AGLI 80 ANNI DI RINO
Seduti davanti a Rino Tommasi a volte è piacevole socchiudere gli occhi. È come entrare dentro una telecronaca, una di quelle memorabili in coppia con Gianni Clerici. Quindi lasciarsi cullare dai racconti, dalla voce, dallo stile, dai neologismi. I suoi neologismi. Perché lui è uno dei pochi giornalisti a poter vantare uno stile diventato espressione sociale, assunto sportivo. Chi gioca a tennis e realizza un punto inaspettato, nove volte su dieci dirà – compiaciuto – “è da circoletto rosso”; o alla fine di un match di boxe ognuno avrà il “suo personalissimo taccuino” sul quale designare il punteggio. Ottanta anni di vita passati su campi rettangolari, in terra battuta e non, ring, palazzetti. Davanti a Mohammed Ali a Kinshasa o sul palchetto di Wimbledon ad assistere a una partita del suo amato Edberg...
Lei è stato anche buon giocatore di tennis...
Ho solo tirato fuori il 110 per cento dalle mie possibilità, sono riuscito a battere ragazzi più forti di me grazie alla testa. Poi un po’ di tigna e il fisico. Potevo giocare tranquillamente cinque ore.
Un Nadal del dopoguerra...
Non proprio, certo ero un regolarista con un bel passante di rovescio. Oh, ma niente di che, in assoluto ero un brocco!
Tra lei e Gianni Clerici, chi vinceva?
Non abbiamo mai giocato contro, ma lui ha conquistato la prima categoria, era più tennista, io più forte fisicamente.
Fine anni Cinquanta è diventato organizzatore di boxe.
Tutto è nato al Circolo Canottieri Roma. Si parlava di pugilato, di incontri, io ne capivo nonostante avessi solo venticinque anni. Poi un giorno alcuni soci, in particolare Carlo Della Vida e Giorgio Nocella (storici manager sportivi), decisero di provarci. Quindi aprimmo una società. E via così.
Subito il successo.
Perché ero diverso da tutti gli altri manager di allora.
Diverso, come?
In quel giro c’era un po’ di tutto, soprattutto i delinquenti. Era ancora la Roma post-guerra e dietro il ring giravano molti soldi, era un modo per emanciparsi, per ricostruire dopo le macerie. Era lo sport del momento.
Lei come si muoveva?
Tenevo a bada questi energumeni. Una volta mi rubarono la macchina, poco dopo arriva uno tipo e mi fa: “A dotto’ nun se preoccupi ce penso io“. Neanche un’ora e mi è stata restituita.
Perché è andato fuori moda uno sport come la boxe?
Troppo proletario, troppa fatica, sacrifici, e i pugni fanno male. È finito con il miglioramento delle condizioni di vita.
Proviene da una famiglia di atleti.
Mio padre come sportivo ha partecipato a due Olimpiadi, quella del 1924 e del 1928, ha mantenuto per tredici anni il record di salto in lungo. Poi è diventato dirigente del Coni, tanto da organizzare i Giochi invernali di Cortina nel 1956, poi l’Olimpiade di Roma nel 1960.
Con quale ruolo?
Direttore dei servizi tecnici, stilava il calendario delle gare. Persona serissima, dedita. Il giorno prima dell’inaugurazione di Roma è svenuto alla guida della sua auto. Era stanchezza. Ed è finito contro un albero. Ha passato tutto l’evento su un letto d’ospedale, è uscito solo per la cerimonia di chiusura.
Mentre sua madre...
Insegnante di educazione fisica. Ma anche nonno era un fanatico delle discipline e il fratello di mio padre, mio zio, ha partecipato a tre edizioni dei Giochi: 1924, 1928 e a Los Angeles nel 1932. Saltatore in alto.
Il più forte dei Tommasi?
Mio padre. Sui cento metri toccava i ‘10 e ’’8 e su piste non performanti come quelle di oggi; mentre per il salto in lungo gareggiava con l’handicap del tendine di Achille.
Quella di “Achille” è una metafora?
No, realtà. Per metà della carriera ha saltato con la gamba debole perché sull’altra non poteva caricare a causa di una rottura mal curata del tendine. Sette metri e quarantuno il suo primato.
Quando siete arrivati a Roma?
Nel 1956 dopo l’incarico per le Olimpiadi estive e subito dopo aver vissuto un anno a Cortina.
Cortina 1956, agli albori del Cinepanettone.
Lì non sapevo con chi allenarmi a tennis, c’era un solo giocatore in tutto il paese: Sergio Tacchini. L’anno prima era stato bocciato, quindi per punizione spedito al collegio tra i monti. In seguito l’ho ritrovato in finale al torneo di Le-vanto e battuto in quattro set. Sia ben chiaro: lui era uno da Coppa Davis, in teoria più forte di me.
Punto di svolta della sua carriera?
Anno 1980, Vittorio Moccagatta (allora dirigente per il gruppo Fininvest) parla di me a Silvio Berlusconi : avevano bisogno di un esperto per gli sport statunitensi, gli unici dei quali avevano i diritti televisivi. Vengo convocato e mi offrono il doppio dello stipendio, 40 milioni l’anno, più un appartamento a Milano2. Berlusconi aveva già chiaro dove arrivare, nel colloquio mi descrisse esattamente le sue strategie. Mi sconvolse.
A Milano costruì la sua squadra di telecronisti.
Feci assumere subito Guido Bagatta, mi disse di conoscere alla perfezione il football americano. Non era proprio così. Me ne accorsi dopo.
Torniamo alla boxe, il suo rapporto con Benvenuti.
Importante, ma con un grande ostacolo: il suo manager, tal Amaduzzi. Trattava Nino come fosse di sua proprietà. Siamo diventati amici solo alla fine della sua carriera.
È stato il più forte pugile italiano?
Un grandissimo sicuramente, meglio di lui solo Bruno Arcari, che però aveva un grosso handicap: l’attitudine a ferirsi, gli si spaccava sempre l’arcata del sopracciglio.
Rimpianti?
No, solo un’amarezza: dopo anni mi hanno riferito che il mio più grande successo da organizzatore è stato un match truccato.
Quando?
Era il 1969, Benvenuti contro Rodriguez: alla undicesima ripresa il cubano finisce k.o. Match entusiasmante. Avrebbe accettato di perdere con Nino inconsapevole. Ma preferisco non crederci.
Il suo rapporto con Tyson...
Una forza bruta incredibile, un selvaggio che sapeva stare al suo posto, almeno con me. La prima volta che l’ho conosciuto mi hanno consegnato una videocassetta con i suoi primi sette-otto incontri. Impressionanti. Lo schema era sempre lo stesso: Mike si avvicinava al centro del ring e tirava un cazzotto, dico uno, al suo avversario, magari sul braccio. Ko. Subito. In un caso il destro ha sfiorato la testa del malcapitato il quale ha intuito il pericolo scampato e ha simulato uno svenimento.
È uno dei pochi giornalisti italiani a poter vantare un rapporto con Cassius Clay...
Uno showman come pochi altri. Carisma puro. Fascino. Se stavi con lui, poco dopo si radunavano centinaia di persone ad ascoltarlo.
Il più grande della storia?
Non lo so, certo la sua rapidità di esecuzione non l’ha raggiunta ancora nessuno. Ogni spiraglio era il suo. E comunque grazie a Clay ho partecipato all’evento sportivo più emozionante della mia vita, il match del 1974 contro George Foreman a Kinshasa.
Settantamila persone a gridare “Ali bomaye!”...
Sì. “Alì uccidilo”. Un match disputato alle quattro del mattino per questione di diritti tv. In quel periodo poi, c’era il dittatore Mobutu, il quale mi fece arrivare una lettera di protesta attraverso l’ambasciata italiana con l’accusa di aver sminuito il padre della patria.
Torniamo al tennis, nel 1983 la sua scommessa: “Se entro cinque anni Edberg non vince Wimbledon, smetto con il giornalismo”.
Vero! E per fortuna ha trionfato al quinto anno. Ma ne ero certo, aveva un gioco brillante, uno che andava sempre a rete. Eleganza in uno sport non elegante.
Ora allena Federer...
Semplice operazione di marketing, ma cosa vuoi insegnare a uno come Roger?
Le sue telecronache con Clerici sono considerate momenti cult per gli appassionati di tennis.
Conversazioni private offerte al pubblico. Non abbiamo inventato nulla, tutto naturale, ci divertivamo. Abbiamo personalizzato, magari mutuato, un’esperienza da speaker statunitense dove è possibile esprimere la propria. Dire “secondo il mio personalissimo” era inconcepibile per allora.
Con “circoletto rosso” indicava un punto da ricordare. Tra i tanti, qual è il suo preferito?
Forse il passante di Connors contro Panatta a Flushing Meadow: tirato da Jimmy direttamente dagli spogliatoi.
Però lei non amava molto Connors...
È il giocatore di tennis più simile al pugile. Entrava in campo per litigare, si difendeva con tutti i mezzi.
Mentre Agassi...
Ha inventato un altro tipo di tennis, ha creato l’anticipo: come la palla batteva terra, lui la colpiva. Era un attaccante di fondocampo.
Sul piano umano, chi si porta dentro?
Arthur Ashe. Sapeva di dover recitare un copione, il ruolo dell’uomo di colore buono, bravo e disponibile. E lo ha interpretato con rigore, come fosse una missione.
Squilla il cellulare, è un amico lo prende in giro per i suoi 80. Tommasi ride, non si scompone. E non lo sa ancora, ma il figlio Guido e l’a m i co Cino Marchese gli stanno preparando una festa a sorpresa. Una festa con tutti gli amici di una vita, una festa da “circoletto rosso”.