Guido Santevecchi, CorriereEconomia 24/2/2014, 24 febbraio 2014
PECHINO TUTTI I RISCHI DELLE «BANCHE OMBRA»
Il signor Zeng Chengjie è stato un figlio dell’economia di mercato cinese. Aveva 19 anni nel 1978 quando Deng Xiaoping lanciò la grande riforma. Figlio di contadini, diplomato, cominciò da manovale nell’edilizia. Sfruttò il boom, riuscì a mettere su una sua impresa e a tirar su palazzi per il governo della sua provincia, lo Hunan. Gli serviva copertura politica, naturalmente, come a tutti in Cina: la trovò. Ma poi aveva anche bisogno di finanziamenti. Il sistema bancario cinese è doppio: i depositi regolari negli istituti statali offrono tassi bassi fissati dalla Banca centrale (al massimo il 3% annuo) e danno al governo denaro a buon mercato da investire in infrastrutture e da distribuire alle grandi aziende pubbliche. Non era il caso di Zeng. Poi ci sono fondi che promettono interessi molto più alti, più o meno regolati dalle autorità di controllo; e contigua c’è un’area grigia di credito definito shadow banking . La zona ombra ha raggiunto i 6 mila miliardi di dollari, circa il 70% del Pil cinese. Una bolla minacciosa per la Repubblica popolare e per l’economia globalizzata.
Raccolta a catena
Zeng raccontò: «Per far andare avanti i miei cantieri non avevo scelta: chiesi soldi alla gente del quartiere, offrendo un tasso del 10% al mese». I cinesi comuni sono risparmiatori e amano investire: nei libri del costruttore diventato anche finanziere sono iscritti 57 mila nomi di gente che si fidò di lui. Con quei soldi Zeng apriva un cantiere dopo l’altro, per grandi alberghi, palazzi di uffici, centri commerciali, tutto nella città di Jishou, Hunan. Arrivò ad avere 32 cantieri aperti contemporaneamente e raccolse più di tre miliardi di yuan (500 milioni di dollari) in microcrediti. Prometteva di restituire le somme con gli interessi entro tre mesi, massimo un anno.
Il self-made man piaceva ai dirigenti locali del partito; i giornali definivano Zeng «diligente, saggio e coscienzioso». Ma nel 2008 la grande crisi finanziaria che travolge l’Occidente scuote anche la Cina. Qualcuno nella sede del partito comunista di Jishou si ricorda che il sistema di raccolta di credito utilizzato da Zeng non è legale. Il 2 ottobre 2008 Zeng viene chiamato per un colloquio dai dirigenti locali e scompare. La famiglia non sa niente di lui per mesi, fino a quando Zeng riappare in un’aula di tribunale, accusato di raccolta illegale di fondi e truffa.
La condanna
Al processo il procuratore fa a pezzi Zeng, spiega che il palazzinaro aveva investito nei cantieri solo una parte dei fondi e continuava a raccogliere nuovo credito per rimborsare i vecchi investitori. Suona familiare? È lo schema Ponzi, quello inventato all’inizio del secolo scorso dall’italo-americano Charles Ponzi, che truffò 40 mila persone. Un raggiro portato alla perfezione da Charles Madoff. Zeng contesta la cifra dell’ammanco, sarebbero 100 milioni, la difesa sostiene che gli immobili basterebbero a garantire gli investitori. Ma gli immobili vengono svenduti dalle autorità. Il processo si conclude nel 2011 con la condanna a morte: «L’imputato ha violato l’ordine finanziario della Cina e danneggiato i cittadini».
I tribunali cinesi mandano a morte duemila persone all’anno. La maggioranza della gente è convinta che per reati di sangue e corruzione grave la sentenza capitale sia giustificata. Zeng è stato fucilato il 12 luglio 2013, in segreto, neanche il tempo di avvisare la famiglia. Questa volta ci sono state forti proteste, sia per la mancanza di pietà che ha impedito un ultimo abbraccio a moglie e figli, sia perché molti si sono resi conto che la colpa vera di Zeng era di aver perso il sostegno del potere politico. Però, per la legge di Pechino, aver raccolto in quel modo tre miliardi di yuan tra i risparmiatori è un crimine.
Vane promesse
A gennaio c’è stato un altro caso che ha coinvolto centinaia di investitori che avevano scommesso i loro risparmi su «Credit Equals Gold N° 1». Il prodotto prometteva il 10% di rendimento annuale e aveva raccolto tre miliardi di yuan (proprio come il palazzinaro Zeng). Ma era collegato a un’industria mineraria nello Shanxi, decotta perché in Cina da mesi si stanno accumulando milioni di tonnellate di carbone invenduto: quel credito era finito letteralmente in un pozzo nero. Il prodotto finanziario era stato venduto attraverso le agenzie della Icbc, la più grande banca della Cina e la prima al mondo per asset . Ma a inizio gennaio China Credit Trust, la società che aveva strutturato questo fondo, ha annunciato: è andata male, non ci sono gli interessi e nemmeno il capitale prestato. L’imminente default è finito sotto la lente delle agenzie di rating , degli analisti internazionali: un caso capace di aprire la diga dei circa 1.670 miliardi di dollari di questi prodotti finanziari in Cina. E di far crollare anche il sistema dello shadow banking . A Davos il presidente di Icbc ha detto: «La mia banca non è tenuta a rimborsare gli incauti, questa è una buona occasione per educare chi presta alle società fiduciarie». All’ultimo minuto invece si è trovato un anonimo investitore che ha accettato di intervenire ristrutturando il debito: capitale salvo, ma addio interessi. Dietro l’anonimo salvatore c’era un ordine politico che somiglia molto a uno schema Ponzi. Da capitalismo di Stato.